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Appuntamenti e news in diocesi di Novara

Route 2022, le parole del vescovo Franco Giulio ai giovani

 

Sabato 4 giugno, in Val Vigezzo, si è tenuta la Route diocesana dei giovani, sul tema “Avrò cura di te”. Circa 400 giovani dai 16 ai 30 anni hanno percorso il cammino da Santa Maria Maggiore a Re, riflettendo su alcuni brani della Fratelli tutti di papa Francesco.


Route dei giovani 2022. Amicizia, fraternità, fratellanza
L’intervento di apertura e l’omelia alla messa conclusiva alla Route 2022
04-06-2022
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Alla conclusione la messa celebrata nel Santuario della Madonna del Sangue, insieme ai partecipanti agli esercizi spirituali diocesani per le famiglie.

Di seguito i testi integrali dell’intervento del vescovo Franco Giulio che ha aperto la giornata, e della sua omelia conclusiva.

 

Amicizia, fraternità, fratellanza

Route dei giovani in Val Vigezzo, riflessione prima del cammino

Benvenuti in una delle valli più belle della nostra diocesi, detta “dei pittori” e “degli spazzacamini”. Ieri sembrava tornato l’inverno e oggi ci è donata una bellissima giornata! Sono contento perché rispetto all’anno scorso siamo aumentati di un centinaio, e anche se le lumache dopo un temporale fanno fatica a uscire, impegniamoci tutti così da arrivare al migliaio entro un paio d’anni. Così almeno mi piacerebbe!

Il tema di oggi è costruito su tre frasi e tre parole.

Le tre frasi

“Maestro, cosa devo fare per ereditare la vita piena?” (Lc 10,25)

Il cammino di oggi ha a che fare con la nostra vita “piena”. Non riguarda solo un sabato o semplicemente un altro dei nostri giorni o le vacanze, ma si tratta di riempire la vita intera.  La prima frase la leggiamo nel racconto dei racconti, nella parabola del Buon Samaritano. “Maestro che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. La nostra traduzione, per oggi, è “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita piena?”. Il cammino di oggi è qualcosa che ha a che fare con la nostra vita in pienezza. Non è un cammino limitato alla giornata di oggi, ma è qualcosa che ci aiuta a “riempire la vita”, che è vissuta così in pienezza da sfociare nell’eternità.

“Chi è il mio prossimo?” (Lc 10,29)

La seconda frase è “Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: Chi è il mio prossimo?”. Questo modo di porre la domanda è un modo per giustificarsi, è un alibi. Gesù alla fine del racconto la cambierà: “Sei tu che ti devi fare prossimo”. Il prossimo è già lì: è quello che è lì dietro, che hai di fianco, che è là in fondo, è quello che non è venuto, è quello che sta fuori dalla staccionata. Il prossimo è già lì: non bisogna domandarsi “chi è?”. Occorre farsi vicini.

“Abbi cura di lui” (Lc 10, 35b)

La terza frase è quella più breve: “Abbi cura di lui”. Abbiamo un po’ tutti il delirio di onnipotenza di essere il Buon Samaritano e di essere migliori del levita e del sacerdote della parabola. Noi non siamo e non potremo mai essere il Buon Samaritano. Il Buon Samaritano è Gesù. E rimane solo lui. Ma Egli è il protagonista del racconto  e vuole mostrarci almeno come occupare bene il posto dell’albergatore. Il nostro posto è quello dell’albergatore. Dice il testo:

“Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno»”. (Lc 10,35)

Questo è il “tempo nostro”! Noi siamo nel tempo di mezzo: Gesù ci dà le due monete d’argento per l’oggi (quello che Gesù ha pagato per noi) e poi al suo ritorno ci darà il saldo. Nessuno di noi pensi di salvare il mondo da solo. Noi diamo il nostro piccolo contributo, ma solo se stiamo in quest’ottica. In questo breve passo sta il messaggio, il punto critico della parabola.

Noi siamo qui, siamo nel mondo, per aver cura dell’altro, in modo tale che l’altro ci faccia ritrovare noi stessi. Senza aver cura dell’altro non ritroviamo noi stessi. Come i bambini, per scoprire chi sono, devono lasciarsi guardare dal sorriso della madre, così noi perveniamo a noi stessi lasciandoci guardare dal sorriso, dalla presenza, dalla vicinanza, dalla prossimità dell’altro. Ma per lasciarci guardare così, abbiamo bisogno di uscire da noi stessi e andare verso l’altro.

Le tre parole

Le tre parole sono: amicizia, fraternità e fratellanza. Sono tre parole dai confini mobili, porosi. Però non sono uguali. E purtroppo noi le confondiamo.

Amicizia

Amicizia è voler bene all’altro. I poeti e i romanzieri dell’Ottocento le hanno definite come “affinità elettive”: “io mi trovo bene con questa persona”. L’amicizia può assumere anche la forma dell’amore tra un uomo e una donna. L’altro ha fiducia in me e io voglio bene a lui o a lei. L’amicizia non è per tutti, neanche per tanti, ma è per pochi. Procedendo nella vita, l’amicizia è come una piramide: da adolescente hai trenta amici, poi dieci, e infine sono tre. Se uno non ha amici, deve essere un po’ preoccupato. Perché significa che è ripiegato su di sé.

Fraternità

Fraternità non è solo voler bene all’altro, ma è voler il bene dell’altro e con l’altro. È un passo in più. La fraternità dovrebbe realizzarsi nelle nostre comunità, le quali dovrebbero avere non tanto dei confini, ma piuttosto essere uno spazio aperto che permetta di vedere oltre. Volere il bene dell’altro e con l’altro significa, ad esempio, che frequenterò un oratorio, un gruppo giovanile, una comunità non solo se mi trovo bene, ma anche quando è difficile, quando bisogna stringere i denti per costruire qualcosa insieme. Dovremmo parlare più che di gruppo, dove puoi anche star bene, di “squadra”, con la quale lotti e combatti per vincere insieme. La fraternità è costruire dei legami stabili: io mi lego a te perché voglio il tuo bene per te e con te.

Fratellanza

La terza parola, molto presente nell’enciclica di papa Francesco, Fratelli tutti, che oggi fa da filo rosso al nostro cammino, è fratellanza. La fraternità è lo zoccolo duro della fratellanza, che è più ampia e che riguarda tutti, anche quelli che sono al di là, che stanno oltre, persino quelli che non ci considerano. Fratellanza è volere insieme il bene comune. Ha a che fare con il bene comune, con la casa comune, e – come dice il Papa – con l’ecologia integrale. Per vivere bene dentro le nostre comunità, abbiamo bisogno che esse siano aperte a un sentimento di fratellanza. Dobbiamo costruire la casa comune.

Adesso voi camminerete lungo la Val Vigezzo. Vedrete che è una valle stupenda. È baciata dal sole. Questa è l’immagine della fratellanza; nessuno può sciupare questo ambiente e neppure i rapporti tra le persone, poiché l’ecologia non riguarda solo l’ambiente ma riguarda le persone, il modo di costruire le case e le strade, di raccogliere le cartacce, di non scrivere sui muri. Questo è il sentimento di fratellanza. Portiamolo nel cuore, nella preghiera, anche durante la Route. È un sentimento che purtroppo in questo momento è molto ferito anche dalla guerra. La cortina di ferro, che sembrava disciolta nel 1989, è riemersa in tutta la sua drammaticità. L’avvertenza finale è la stessa dell’inizio: “cosa devo fare per avere la vita piena?” Non si può avere la vita piena da soli. Per questo gli uomini e le donne oggi sono molto tristi, perché vogliono essere felici da soli. È un segreto sui cui bisogna riflettere bene. Auguri e buona Route.


I tre volti dello Spirito dell’Amore

Route dei giovani in Val Vigezzo, omelia alla messa conclusiva 

  1. Introduzione

Siamo alla vigilia di Pentecoste, parola che deriva dal greco e che significa cinquanta. Infatti, nella notte che scenderà tra qualche ora, cadranno esattamente cinquanta giorni dalla notte di Pasqua. Presso gli ebrei, la Pentecoste era il giorno del rinnovamento dell’alleanza e del dono della Legge ed era collegata con la festa della mietitura.

Questa mattina abbiamo incominciato il nostro cammino attorno a tre parole e ora vorrei riprenderle. Adesso sono ancor più significative con il guadagno, con l’arricchimento della vostra riflessione, dei vostri incontri, dei vostri pensieri e delle vostre azioni durante la Route. Aggiungo ora qualche piccolo approfondimento.

Le tre parole di riferimento sono: amicizia, fraternità e fratellanza e vi spiegherò perché queste tre parole, rispetto alla breve descrizione che ho fatto nella mattinata, abbiano bisogno del valore aggiunto dello Spirito Santo.

  1. Amicizia

Amicizia è voler bene all’altro. Perché ci vuole una marcia in più per volere bene all’altro? Di per sé sarebbe una cosa naturale: abbiamo parlato, infatti, di affinità elettive… Tuttavia, ci accorgiamo che è difficile costruire un’amicizia vera. Voler bene all’altro comporta che l’altro riconosca anche il nostro bene, che ci sia una sorta di reciprocità. E comporta di vedere l’altro non solo come “concorrente”, ma come “promettente”. Molti oggi vedono gli altri come concorrenti: la vita diventa una competizione, in tutte le sue sfaccettature. È invece difficile vedere l’altro come una promessa, come qualcuno che mi stimola ad arricchirmi e a crescere.

L’amico vero è l’amico promettente. Il che può prendere una scala di colori molto diversa, che può arrivare fino al voler bene all’altro che è altro da me, il bene tra l’uomo e la donna. Fino alla maxima amicitia, come la definisce San Tommaso: l’amicizia “più grande”. È un superlativo, che nell’esperienza dell’innamoramento può diventare il matrimonio. In tal caso è volere bene all’altro in modo che l’altro sia capace di essere per me una promessa, che mi mette in cammino, mi fa sognare insieme con lui o con lei, mi fa costruire un progetto così poco teorico, ma assai pratico che va oltre i due: la vita felice e il dono dei figli. Nell’amicizia c’è tutto questo, e ha tutte le scale della gradazione di colore: amicizia è il voler bene all’altro. Per questo l’amicizia è un evento spirituale, è il segno che ha bisogno anche dello Spirito, quello Santo, per durare a lungo nel tempo.

  1. Fraternità

L’amicizia, tuttavia, non saprebbe stare in piedi se non ci fosse la fraternità. Fraternità non è solo volere bene all’altro, ma volere il bene dell’altro e con l’altro. È stabilire, cioè, dei legami con l’altra persona. In genere la fraternità si applica alla fraternità cristiana. Abbiamo detto questa mattina che si sta in un gruppo giovanile non solo perché ci si sente bene – o lo abbandona, quando non si sente più bene – ma perché costruisce un po’ di strada insieme alle altre persone. E “fare squadra” è importante, perché da solo cresco meno bene. Crescendo insieme, cresco con dei legami. Questo vale ancora di più nella società di oggi, perché molti sono figli unici. Chi ha dei fratelli, fa esperienza di fraternità in casa e questa esperienza si universalizza nell’esperienza di fraternità cristiana.

Coltivate bene il momento della fraternità: questa è la Chiesa. Per questo la Chiesa è l’evento dello Spirito. La Chiesa serve innanzitutto per cominciare a vivere bene in terra e poi per andare in Paradiso, costruendo quei legami che creano l’ordito per un tessuto forte e che influiscono poi anche sulla vita sociale. Se noi facessimo bene la Chiesa, avremmo già trasformato il mondo. Se la Chiesa è il luogo dove vado solo perché mi sento bene, perché cerco qualche compiacimento, tutto questo durerà solo una stagione. La Chiesa come luogo dello Spirito Santo è lo spazio dei legami che non vengono solo dalla carne e dal sangue, ma sono tenuti insieme dal dono dello Spirito.

  1. Fratellanza

La terza parola è altrettanto importante: fratellanza. Fratellanza non è solo cercare il bene dell’altro e con l’altro, ma è cercare il bene dell’altro per costruire un mondo ospitale, una società giusta, un mondo abitabile, una casa comune. La fratellanza è tutto ciò. Per questo la fraternità non può avere confini che sono pareti, ma deve avere confini porosi, che permettono di vedere oltre, di andare al di là. Ci sono anche coloro che sono al di fuori, verso i quali dobbiamo andare. Essi ci fanno accorgere che ci sono i diversi, che non sono antagonisti, ma semplicemente quelli che ci stimolano ancora una volta ad uscire. La fratellanza è importante oggi, per vivere in questo mondo, come correttivo radicale alle forme di campanilismo, di sovranismo, di isolazionismo. L’altro non è sempre simpatico. È interessante ricordare i tre personaggi della parabola del “buon” samaritano (cfr. Lc 10,25-37): il levita e il sacerdote che avrebbero avuto il ruolo di prestare aiuto all’altro sono andati via per adempiere, secondo il loro ruolo istituito, ciò che era previsto per il culto al Tempio; il samaritano, che era un escluso e uno “scomunicato”, inverte il suo ruolo e diventa il prossimo. Anche la fratellanza si alimenta al dono dello Spirito Santo, che opera attraverso e al di là delle pur lodevoli e buone realizzazioni storiche della fraternità.

  1. Conclusione

Se quest’anno riusciremo a portare a casa la convinzione di essere giovani che sanno vivere queste tre movimenti dell’amore, saremmo già a buon punto. Amore è una parola liquida, forse oggi è diventata persino “gassosa”.

Lo Spirito Santo è l’amore, perché è il motore di questi tre movimenti. Ne è la regola interiore. Non è la Legge scritta su pietra, che ci fa diventare il cuore di pietra, ma è la Legge che penetra nella carne, che ci fa diventare il cuore di carne, capace di amare, di stare vicino, di comprendere, di appassionarsi, di creare e di costruire insieme la casa comune.

Termino con un pensiero semplice. Usciremo certamente da questa situazione, così come hanno avuto termine la prima e la seconda guerra mondiale. Non siate così timorosi da pensare che non usciremo da questa situazione! È molto importante, però, la ripartenza. Vorrei che i giovani della nostra diocesi potessero ripartire bene all’inizio del terzo decennio del secolo XXI, che per certi aspetti ricorda la ripartenza alla fine del secondo conflitto mondiale, anche se in quel caso fu molto più complicato e difficile, come ci fanno comprendere i nostri libri di storia.

Mi piacerebbe che la nostra ripartenza, dal 2020 al 2030, desse un colpo d’ala, uno scatto d’orgoglio, per riuscire a costruire una casa, una comunità e una società più belle. Nella casa cresca l’amicizia, nella comunità abiti la fraternità, nella società fiorisca la fratellanza. E sapete quale sarà la sorpresa? Il mondo che costruirete è quello di cui potrete beneficiare. È il mondo che vi farà felici o meno felici. Con tanti auguri!

+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara

La libertà nei passaggi della vita. Le parole del vescovo ai giovani della Route

Lo scorso 5 giugno si è tenuta l’edizione 2021 della Route dei Giovani, il primo appuntamento diocesano dedicato a ragazzi e ragazze in presenza dopo lo stop dovuto alla pandemia. Tre gli itinerari (per il nord, centro e sud della diocesi), attorno ad un unico cammino.


La libertà nei passaggi della vita
Route dei giovani 2021
05-06-2021
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«È la prima volta che ci incontriamo. Lo scorso aprile abbiamo vissuto la veglia delle Palme, per quanto molto ben fatta, solo in video e la Route dell’anno passato non si è potuta svolgere. È dunque la prima volta che ci vediamo. Ho letto sui vostri volti, negli altri luoghi dove si è svolta oggi la Route, stamattina a Galliate, poi a Cavandone e, infine, qui ora a Boca, tanta voglia di ripartire con il vostro entusiasmo», ha detto il vescovo Franco Giulio nell’omelia al Santuario di Boca ai partecipanti, indicando una strada per animare e sostenere questo tempo di ripresa.

Ecco il testo integrale della sua omelia. A questo link, il video messaggio che mons. Brambilla ha inviato ai partecipanti durante la giornata.

 

La libertà nei passaggi della vita

Route dei giovani 2021

 

La ripartenza

Carissimi giovani, celebriamo qui a Boca il traguardo della nostra Route che, però, come per ogni giro che si raccomandi, è solo la prima tappa. Questa è una tappa particolarmente importante, perché è la prima di un giro più grande che forse, così almeno speriamo, ci introduce in un nuovo periodo. Voi, che siete nati dopo il 2000, siete i giovani del terzo millennio, di questo secolo che probabilmente non è ancora veramente partito!

Vi è noto come agli inizi del secolo, nel 2001, abbiamo vissuto la tragedia delle Torri Gemelle, e lì ci siamo resi conto che il mondo non era più solo il mondo occidentale. Ci siamo trovati dinanzi a una competizione col mondo orientale, con uno scontro tra varie culture e addirittura religioni diverse, che per alcuni è divenuto addirittura uno scontro di civiltà. In seguito c’è stata la grave crisi economica del 2008 che si è protratta almeno fino al 2012, l’anno nel quale sono arrivato a Novara quando c’era ancora lo strascico della crisi. Qualcuno di noi potrebbe aver avvertito anche in casa propria gli effetti di quella depressione economica. Questi fatti degli inizi del secolo ventunesimo, per quanto gravi, sono stati tuttavia per noi eventi esterni e di cui abbiamo fatto esperienza solo attraverso il filtro della televisione e della comunicazione. Forse la seconda crisi, che ha riguardato il versante economico, ci ha toccati più da vicino, ma voi eravate ancora ragazzi o all’inizio dell’adolescenza.

La terza crisi, questa segnata dal Covid, ci ha chiusi tutti in casa. Il paradosso è che la stiamo vivendo con un nemico assolutamente invisibile! E ci ha rinchiusi per un anno e tre mesi, perché il primo lockdown ha avuto inizio il 7 marzo dello scorso anno.

È la prima volta che ci incontriamo. Lo scorso aprile abbiamo vissuto la veglia delle Palme, per quanto molto ben fatta, solo in video e la Route dell’anno passato non si è potuta svolgere. È dunque la prima volta che ci vediamo. Ho letto sui vostri volti, negli altri luoghi dove si è svolta oggi la Route, stamattina a Galliate, poi a Cavandone e, infine, qui ora a Boca, tanta voglia di ripartire con il vostro entusiasmo.

Ora la mia domanda è: come dobbiamo riempire questa ripartenza? Ci vengono in aiuto le due scene che abbiamo ascoltato dalla Liturgia della Parola di oggi.

1. Ritessere legami

La prima scena è presa dal testo dell’Antico Testamento – Esodo 24,3-8 – ed è il testo della alleanza. Si narra di una condizione simile alla nostra, di un popolo già uscito dall’Egitto, già libero e non più schiavo, però in cammino nel deserto e che deve inventarsi come popolo. Mosè sancisce un’alleanza, un patto, un legame e una legge comune, i comandamenti, perché, senza un’intesa sui gesti fondamentali da compiere, non c’è popolo. Poi Mosè lo fa attraverso un rito dove le dodici stele delle dodici tribù sono asperse con il sangue insieme all’altare centrale che rappresenta la presenza di Dio. Questo rito di alleanza ci consegna un messaggio bello che vorrei regalarvi: per ripartire bene deve circolare la stessa vita. Per gli ebrei il sangue è la sede della vita, e anche tra noi deve circolare la stessa vita, non solo la vita fisica, ma anche la vita con la “V” maiuscola. La vita come desiderio di fare e di crescere, desiderio di sfidare, di scegliere, di andare avanti. Per attuare questo, dobbiamo rinnovare il nostro patto, i nostri legami.

Giovedì scorso in Duomo, in occasione della celebrazione la festa del Corpus Domini, facevo notare quali erano le cose che ci sono mancate maggiormente in questi mesi: gli abbracci, le carezze, la stretta di mano, che sono tutti segni del legame, dell’affetto, della prossimità. La nostra prosse­mica, cioè il modo con cui diventiamo prossimi in quest’anno è stato inibito, è stato come sterilizzato e ora dobbiamo recuperarlo. Lo riprenderemo nei gesti, ma sarà importante ricuperarlo anche nelle nostre relazioni. Può essere che in questi tempi avremo smarrito qualcuno per strada, perché magari non ha più inviato messaggi, è uscito dal gruppo… Dobbiamo allora ricuperare i legami che ci fanno andare avanti, perché nel deserto non si cammina da soli.

Il deserto è struggente e meraviglioso, ma anche come dice il libro del Deuteronomio grande e spaventoso (Dt 8,15)! Forse non vi è mai capitato di attraversare un vero deserto, dove ci sono interminabili chilometri di sabbia. Se uno pensa di fissare al mattino una duna come riferimento per iniziare il suo cammino e poter tornare sulla stessa via, alla sera la duna di sabbia ha già cambiato forma e non la si riconosce più. Per questo il salmo dice “Signore tu sei mia roccia”[1], perché mentre per noi la roccia indica un “fondamento” sicuro, per gli ebrei era anche il “punto di riferimento” certo, perché la roccia non muta la sua forma, rimane salda pur in mezzo ad un panorama di dune sabbiose. Il messaggio che voglio consegnarvi oggi è un invito forte ad essere persone che ripartono! Tengo molto a lanciare questo messaggio, perché possiamo ritessere i nostri legami, la nostra prossimità, la nostra vicinanza.

2. Prepararsi a diventare adulti

La seconda scena ci dice forse qualcosa di più concreto. Gesù stesso è la figura storica che ci cammina accanto. L’ho detto anche attraverso il breve messaggio che ho inviato e che mi ha preceduto. Gesù manda avanti i suoi discepoli a preparare il luogo dove celebrare la Pasqua. Anche noi dobbiamo lasciarci mandare avanti, per preparare il luogo dove celebrare questo passaggio. Molti di voi, soprattutto chi ha vissuto momenti di passaggio, dalla terza media alla prima superiore o dalla quinta superiore al primo anno di università, o anche chi stava cercando un lavoro ha vissuto questo tempo come un tempo rubato. Di ciò sono molto preoccupato, come ho confidato anche ai preti giovani qui presenti. Questi passaggi, questi due anni rubati che purtroppo non torneranno più, questi snodi importanti della vita, nei quali si viene iniziati a una fase nuova dell’esistenza, non si potranno più vivere. Ai sacerdoti e anche agli educatori dico che a settembre dovremo fare qualcosa per dar voce a questi adolescenti, giovani e giovani adulti che hanno vissuto questi passaggi negati. Aiutiamoli ad elaborare il loro lutto, aiutiamoli a rileggere come hanno vissuto questo tempo da soli, nella stagione in cui di solito si prendono decisioni importanti.

Preparare la Pasqua ha anche un altro significato per voi. Prevedo che nei prossimi mesi si vivrà un po’ di euforia per la libertà ritrovata e quindi dovremo attendere il mese di settembre per vedere cosa rimane. Se dovessi tradurre per voi le domande classiche che solitamente si fanno ai personaggi famosi, perché dimostrino la loro concretezza e la loro cultura (quanto costa un litro di latte? tre libri che vorreste portare su un’isola solitaria), a voi chiederei: “Quali sono le due/tre cose che portereste nel 2022 e poi anche nel 2023 e 2024, quando forse ritorneremo a una vita apprezzabilmente normale?”. In questi ultimi anni abbiamo vissuto tante possibilità, adesso possiamo immaginare di scegliere qualcosa, con cui potremo diventare un po’ più grandi.

Per diventare adulti, bisogna scegliere! Un adolescente di fronte alla domanda “cosa scegli?”, risponde che sceglie “tutto”, mentre l’adolescente diventa adulto, quando è capace di concentrare quel “tutto” dentro un’unica scelta, in una scelta singolare. Pare che Einstein fosse stato bocciato all’esame di matematica! Ma poi ha saputo concentrare tutta la sua potenza intellettuale, tra le infinite possibilità, nello studio della fisica e ha scoperto la legge della relatività. Così ognuno di noi ha una legge della vita da scoprire, ma per fare questo deve concentrare nella sua scelta di vita, una decisione che ci fa unici e singolari, come in una sorta di fusione atomica. Solo in quel momento sarà diventato adulto!

Se, dunque, in questi due anni abbiamo sperimentato che potevamo vivere senza questo o quello, chiediamoci allora quali sono le due/tre cose che porteremo con noi nel futuro e che ci aiuteranno a diventare adulti. Nella vita e nella fede. Allora l’invito “ripartiamo” porta con sé un contenuto forte. I vostri volti mi dicono che ce la possiamo fare. Anche se piove a dirotto, ci proviamo?

 

+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara

[1] (Cfr. Sal 18,3.32.47; Sal 19,15; Sal 28,1; Sal 31,3; Sal 42,10; Sal 62,3.7; Sal 71,3; Sal 73,26; Sal 78,35; Sal 89,27; Sal 92,16; Sal 94,22; Sal 95,1)

 

Torna R-Estate in Missione: le date e il percorso dell’edizione 2020

Educazione alla mondialità, apertura alle diversità, incontro con le culture e conoscenza delle attività missionarie: torna anche nel 2020 R-Estate in Missione, la proposta di formazione e animazione missionaria rivolta ai giovani tra i 20 ed i 30 anni della diocesi di Novara, organizzato dal Centro Missionario Diocesano, in collaborazione con l’Ufficio diocesano per la pastorale giovanile.


Il primo incontro di presentazione del percorso formativo si terrà:

Sabato 18 gennaio 2020 alle ore 15, presso la sede della Caritas diocesana (Novara, via San Gaudenzio 11)


Informazioni e iscrizioni a R-Estate in Missione

Per informazioni è possibile contattare telefonicamente:

  • il Centro Missionario allo 0321-661642 (da Lunedì a Venerdì dalle 11 alle 13);
  • il centralino della curia diocesana (da Lunedì a Venerdì dalle 14.30 alle 17);
  • o il numero 347-0085196.

Oppure scrivere a:  missioni@diocesinovara.it


Le date del percorso

Il percorso prevede sei incontri di preparazione da febbraio sino a giugno, con la conclusione alla Route diocesana dei giovani, durante la quale chi partirà in missione, riceverà il mandato dal vescovo Franco Giulio.
Nel mese di settembre, sono poi in programma altri due incontri di revisione e restituzione.

Ecco le date:
Incontri di preparazione
1° Febbraio, dalle 10 alle 16;
15 Febbraio, dalle 10 alle 16;
7 Marzo, Cena insieme
18 Aprile, dalle 10 alle 16; SOSPESO L’INCONTRO IN PRESENZA
9 Maggio, dalle 10 alle 16; SOSPESO L’INCONTRO IN PRESENZA

Nel febbraio 2020, in seguito alle disposizioni per il contenimento del Coronavirus, il percorso e gli incontri in presenza previsti sono stati sospesi. Sono state comunque proposte alcune occasioni formative online, in particolare la videoconferenza del 18 aprile 2020 con la giornalista Anna Pozzi sul tema “Africa e Migrazioni al tempo del Coronavirus” e la videoconferenza del 9 maggio 2020 con il giornalista Giorgio Bernardelli sul tema “La cultura della terra. Il Sinodo dell’Amazzonia e le sfide del presente”.

Estate 2020, partenza per le missioni

Incontri di revisione
5 Settembre, Cena insieme
3 Ottobre, dalle 10 alle 16.

 

Brambilla ai giovani: quel “Noi” che apre l’orizzonte e fa dire “EccoCi”

La giovinezza come età di passaggio, «l’etate che puote giovare», come scrive Dante, per diventare grandi e vivere da adulti. Ma anche l’età dell’”EccoCi”, da spendere nel presente come impegno, scommessa coraggiosa, scelte forti: con una sottolineatura, che sta tutta nella declinazione al plurale di quell’”EccoCi”: «Il cammino di quest’anno vuole sottolineare il “Noi”. prima precede il “noi” e poi viene l’“io”. Per educare un cucciolo d’uomo ci vuole un villaggio intero».


La torta della vita

Introduzione al sussidio di preghiera per i giovani 2019-2020 “E adesso… Vivi!” La sua giovinezza ci illumina
23-09-2019
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Discorso agli operatori di pastorale giovanile e ai sacerdoti

Assemblea di avvio dell’anno di pastorale giovanile 2019
20-09-2019
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E’ ‘invito che, ad avvio di anno pastorale il vescovo Franco Giulio  ha fatto ai giovani della diocesi di Novara: nella sua introduzione al sussidio di preghiera di quest’anno e nell’assemblea che ha riunito a Borgomanero sacerdoti ed operatori di pastorale giovanile.

 

Un invito mette al centro i temi forti di quest’anno in diocesi nell’impegno della comunità per le nuove generazioni, e che guarda all’Esortazione Apostolica Christus Vivit  che Papa Francesco ha scritto a seguito del Sinodo dello scorso anno dedicato ai giovani.

Di seguito i due interventi


La torta della vita

Introduzione al sussidio di preghiera per i giovani 2019-2020
“E adesso… Vivi!” La sua giovinezza ci illumina

 

Carissimi giovani,

«Cristo vive. Egli è la nostra speranza e la più bella giovinezza di questo mondo […] lui vive e ti vuole vivo!» (CV 1).

L’inizio squillante dell’Esortazione sinodale  di Papa Francesco (Cristo vive!), pubblicata dopo il Sinodo dei Giovani del 2018, ci dà come la scossa per interrogarci in modo radicale: la nostra è una vita “vera”? Se, come dice Dante, la giovinezza è «l’etate che puote giovare» (Convivio, 4,24), la domanda diventa: a che cosa giova questa età? La risposta è semplice e impegnativa nello stesso tempo: giova a diventare grandi e a vivere da adulti.

Adolescenza e giovinezza sono come i due tempi di un unico film: il primo tempo mette in scena i personaggi del racconto e fa scorrere le prime sequenze della trama, dove l’azione sembra annodarsi e ingarbugliarsi in storie spesso contorte e intricate; il secondo tempo imprime un’accelerazione con al centro un evento critico, in cui la storia è sottoposta a una prova insuperabile, fin quando un fatto imprevisto scioglie l’intrigo e la storia giunge alla fine. Magari è ancora un finale aperto, non ancora compiuto, che non sempre raggiunge un “…e vissero felici e contenti!”, ma certo è un “the end” che dà a pensare e apre al domani. È il futuro da adulti per cui vale la pena aver ricevuto la vita, essere nati, diventati adolescenti ed entrati nel dramma della giovinezza.

“Dramma” deriva dal greco dráma,  che significa azione. Non è solo un fare, mettendo in opera mezzi per ottenere degli scopi, ma è un agire che comporta sentimenti, passioni, scelte, decisioni, relazioni, risultati, fallimenti, conquiste e sempre nuove partenze. La vita è vera quando è un “dramma”, quando cioè diventa un agire che si distende nel tempo e costruisce storie in formato grande. La vita comporta scelte e decisioni, giorno per giorno, richiede piccole e grandi azioni, che costruiscono la nostra “scelta di vita”.

Eppure oggi sembra meglio non scegliere, pare più facile seguire il flusso degli eventi e delle cose che ci càpitano, è più desiderabile “lasciarsi vivere”. Ma questo genera disorientamento, improvvisazione, noia, ci fa tirare a campare. Per fortuna vi sono alcune cose stabili: la famiglia, la scuola, e, per i più grandi e fortunati, il lavoro. Sono come la base sicura su cui camminare: ma poi in che direzione andare? Ritorna la questione delle piccoli e grandi scelte della vita, soprattutto la domanda sulla direzione da prendere.

Vi racconto una storia, la mia storia che ho vissuto. La mia generazione è nata dopo la seconda guerra mondiale, il paese era distrutto, ma la voglia di fare e di ricostruire era tanta. Nei miei primi vent’anni si respirava l’aria buona per rischiare e tentare cose nuove. La parola magica era “progresso”. Avevamo pochi ingredienti per costruire la “torta della vita”. Noi abbiamo lottato per procurarcene altri, abbiamo faticato per portare a casa nuove possibilità di crescita, e, in colpo solo, abbiamo costruito il nostro futuro, la nostra vocazione, la nostra famiglia, il nostro Paese. E abbiamo vinto anche due volte il campionato del mondo!

È stato un periodo esaltante, un’età dove la parola-guida era “futuro”. Qualcuno ha anche buttato a mare il passato come un ferro vecchio, vi fu persino chi lo ha combattuto fino ad arrivare a negarlo, portando alla terribile tragedia del terrorismo. Ma questa è stata la malattia più grave che nascondeva un male più sottile. Nei traguardi raggiunti ci si è quasi inebriati dei risultati, ma soprattutto si sono trasmesse queste conquiste alla nuova generazione come se fossero state cose facili da ottenere e realizzare. La sfida, l’ingegno, la creatività, la lotta, il sacrificio, la condivisione, che avevano permesso di raggiungere questo grande traguardo, sono stati sottaciuti e oscurati. Si sono trasmessi solo i risultati, il benessere, il patrimonio, la possibilità infinita di mezzi, la facilità dei viaggi, e molto altro, ma non la fatica che costava ottenerli.

La “torta della vita”, però, non può essere trasmessa solo come una cosa, né come una ricetta, ma va consegnata come un mestiere, anzi come un’arte, l’“arte di vivere”! Oggi la nuova generazione giovanile si trova nella situazione capovolta. Non deve tanto arrabattarsi a cercare altri ingredienti, non deve ingegnarsi a cercare nuove risorse, ma è immersa e quasi sommersa da infinite possibilità. Quando un giovane di oggi sogna, può fantasticare su tutto: ha i social che aprono una finestra interattiva col mondo, dispone dei prodigiosi mezzi della comunicazione, sogni viaggi senza confini, dispone di risorse che alimentano ogni opportunità, ha accesso a ogni tipo di conoscenza scientifica, tecnica e bibliografica. Insomma tutto sembra facile e a portata di mano.

Il giovane oggi deve scegliere ogni giorno, facendosi strada in una foresta di possibilità diverse e affascinanti. Non sa, però, cosa scegliere e ha paura di perdere qualcosa. La malattia mortale da cui può essere colpito è la noia, che paralizza di fronte alle infinite possibilità della vita. La sua “torta della vita” ha a disposizione fin troppi ingredienti. Se non sceglie quali usare, ma soprattutto quali escludere, essa diventa immangiabile e indigeribile.

Il mio augurio per ciascuno di voi è questo: scegli ogni giorno ciò che può costruire il tuo futuro, decidi attraverso le piccole e grandi scelte di vita il tuo volto di domani. L’adolescenza e la giovinezza è l’età che può “giovare”… Che la tua giovinezza possa “giovare” ai desideri del tuo cuore. Per costruirne il tuo domani di adulto!

 

+ Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara


Discorso agli operatori di pastorale giovanile e ai sacerdoti

Assemblea di avvio dell’anno di pastorale giovanile

 

Volevo iniziare con una frase che mi ha sempre orientato e che mi piacerebbe che imparaste a memoria. È una frase di un autore dell’Ottocento, Johann Adam Möhler (1796 – 1838), e dice così:

Non vorremmo morire né asfissiati per estremo centralismo, né assiderati per estremo individualismo. Né uno può pensare di essere tutti, né ciascuno può pensare di essere il tutto, ma solo l’unità di tutti è una totalità. Questo è l’eídos (εἶδος), questa è la forza motrice della Chiesa cattolica!.

Il cammino di quest’anno vuole sottolineare tale “Noi”. Se chiedete a qualcuno in mezzo a voi, che proviene dal continente africano, vi risponderà che prima precede il “noi” e poi viene l’“io” e che per educare un cucciolo d’uomo ci vuole un villaggio intero.

Vi dico tre cose a proposito del “Noi”.

 

Il “noi” che ci precede

La prima parla del “noi” che ci precede: sono i nostri genitori e parenti. Da dove noi veniamo, com’è la mia casa, com’è il mio paese, com’è la mia città, com’è il mio ambiente, come sono le mie radici. Io non sono un fungo nel deserto, non sono un’orchidea in mezzo alla sabbia ma, se sono cresciuto bene, è perché sono stato piantato e cresciuto in un terreno nutriente. Andiamo con l’immaginazione in piazza san Pietro il 13 marzo del 2013: furono 32 i secondi in cui il Papa fece pregare in silenzio per lui! Stasera vi chiedo di pregare per quel “noi” che siamo, per quel “noi” in cui siamo cresciuti, di cui noi siamo la concretezza storica – io sono ciò che ho ricevuto! – per non perdere lo stupore originario della vita, e che si rinnova ogni mattina, quando ci chiediamo: “perché ci sono, e potrei non esserci!”. Ringraziamo per questo nel silenzio di qualche attimo…

Il “noi” in cui esistiamo

Dal “noi” da cui siamo venuti al “noi” in cui siamo, in cui staremo quest’anno, al noi attuale. Pensiamo all’orizzonte in cui ci collochiamo, agli ambienti che frequentiamo, come la scuola, il lavoro, la casa. Qui sono contenuti tutti i frammenti e gli impulsi della nostra vita: il “noi” attuale e vitale di oggi che comprende anche i nostri ambienti oratoriani ed ecclesiali, di studio e di lavoro.

Come percepiamo il “noi” ecclesiale? Solo come un luogo in cui si sta bene? E col quale ci rapportiamo solo quando “si sta bene” o da cui ci allontaniamo se non siamo stati bene? O lo sentiamo anche come un “noi” un po’ provocante, a volte inquietante, persino spigoloso, perché lo abita chi mi sta simpatico, ma anche chi è difficile e va preso a piccole dosi… Il “noi” attuale è la grande sfida: esso apre il mio “io”.

Io so chi sono, se lascio che l’altro si infiltri in me. Se poi pensiamo non solo ad un “altro” – al  singolare – ma agli “altri” – al plurale; se pensiamo a un altro che non è scelto, solo perché mi trovo bene con lui, ma è accolto perché, anche se non mi trovo bene, mi stimola ad allargare lo sguardo, allora comprendiamo come il “noi” attuale  sia provocante e promettente.

È il “noi” in cui siamo. Dedichiamo i primi mesi di quest’anno negli ambienti che abiteremo, diamoci del tempo per farci questa domanda semplice: se, come dice Gesù, raccogliessimo un solo proselito, uno che abbiamo convinto e persuaso, sceglierebbe di stare insieme a noi e di restare con noi, oppure se ne andrebbe? Troverebbe nel nostro “noi” un luogo esigente, stimolante, nutriente, oltre che un luogo dove si sta bene. La Chiesa non è solo la casa dove si sta bene, ma è il luogo dove si cammina verso il bene. Se anche non facessimo nulla per questo mondo, ma se facessimo solo del nostro ambiente la casa della fraternità, potremmo già cambiare il mondo.

Ho avuto la fortuna e la grazia di essere destinato, nei primi dieci anni di sacerdozio, di andare nel fine settimana nella parrocchia intitolata a san Giuseppe, collocata tra San Fruttuoso e San Rocco, a Monza, che da terreno arido il parroco è stato capace di trasformare in giardino in fiore. Ecco, allora, il nostro “noi” deve essere un noi “stimolante”, dove si va volentieri perché sentiamo che è un luogo di crescita, dove possiamo dire il nostro “eccoCi”.

È un “noi”, il nostro “noi”, dove si abita volentieri? In cui “volentieri” non significa spontaneamente, ma piuttosto con “buon volere”, perché capisco che è un luogo che mi fa crescere. Possiamo dire che il nostro è un ambiente dell’”eccoCi”? Dove il tutto è più della somma dei singoli addendi, in cui il totale è più della somma dei singoli “io”? La Chiesa è quella realtà grandiosa, dove uno, più uno, più uno, fa due e mezzo e, invece, dove uno, più uno, più uno e più uno ancora, fa già cinque. È una strana matematica. Se ci pensate un poco è proprio così: nei nostri ambienti, quando la vita comune funziona, la totalità è sempre di più della somma dei semplici addendi. Perché in mezzo ce n’è Uno che, non solo si infiltra in noi, ma che ci dà un pane per vivere. È un pane strano, che quando noi lo mangiamo, non lo assimiliamo in noi, ma ci assimila a Lui. Nella bolla “Transiturus” dell’11 agosto 1264, che conserviamo a Novara in uno dei due originali unici rimasti al mondo, con la quale si istituisce la festa del Corpus Domini, nella parte conclusiva si dice che questo [dell’Eucaristia] è un pane che, quando tu lo mangi, non lo assimili in te, ma ti assimila a Lui! Dobbiamo fargli spazio, e fare in modo che chi sta con noi si accorga che in mezzo a noi c’è questo Ospite “inquietante”: se fai spazio a Lui, riesci a far spazio a tutti.

Il “noi” che saremo

Il terzo “noi” è il “noi che saremo”, che vorremmo costruire, è quell’“eccoCi” che ci mette per strada. Mi ha colpito, la scorsa domenica, un’intervista a un filosofo, che è stato dei nostri, ma poi ha preso la sua strada, il quale ha dichiarato: «Noi corriamo il rischio di morire di nichilismo, cioè di quell’atteggiamento per cui facciamo le cose e sappiamo che non ci nutrono, che non ci danno vita, che ci annoiano. Per sentirmi vivo devo sballare, fare qualcosa di strano, di straordinario». Secondo questo filosofo, siamo noi adulti che non siamo stati in grado di trasmettere quei gesti che facendo crescere, diventano riti di iniziazione. Egli propone questa soluzione, soprattutto ai giovani: a diciotto anni fuori di casa, a mille chilometri di distanza, con un anno di servizio civile. Per ragazzi e ragazze. A noi forse basta almeno andare un po’ fuori dal grembo materno verso qualcuno. Ricordo con gioia coloro che quest’estate sono andati in missione, dopo aver ricevuto il mandato alla Route dei giovani. Vorrei ricordare accanto a questi, tutti coloro che hanno dedicato il loro tempo per i nostri Grest. Perché tutte queste scelte rappresentano il “noi” che saremo, l’“eccoCi” con cui costruiamo il nostro futuro. Più si diventa grandi, e più la base della nostra piramide di relazioni si restringe. Il numero degli amici, man mano che passano gli anni diminuisce, e s’impoveriscono anche le possibilità della vita.

Il “noi che saremo”, il “noi” futuro, deve essere un noi arioso, un “noi” con un orizzonte vasto. Facciamo questo proposito: una sera alla settimana, lasciamo che i nostri giovani, i nostri adolescenti, vadano in giro, ascoltino le altre persone, leggano un libro, in modo che il loro orizzonte si dilati e si arricchisca. L’”eccoCi” del come “noi saremo” ha bisogno di tale orizzonte più ampio. «Né uno può essere tutti, né ciascuno può essere il tutto, ma solo l’unità di tutti è una totalità. Questo è l’eídos della Chiesa cattolica!». Altrimenti si muore asfissiati e assiderati. E noi non vogliamo morire così!

+ Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara


Uomini di Galilea, perché state a guardare verso il cielo?

«Questa è la grande tentazione: immaginare che la vita si possa sistemare con un tocco di bacchetta magica, e c’è chi anche oggi ci incanta con queste promesse». Lo ha detto il vescovo Franco Giulio Brambilla ai giovani riuniti sulle sponde del Lago d’Orta – alla spiaggia di Lagna di San Maurizio d’Opaglio – lo scorso 1° giugno per la Route 2019, durante l’omelia che ha concluso la giornata dedicata al tema #EccoCI e alla riflessione su testimonianza e comunità.


Uomini di Galilea, perché state a guardare verso il cielo?
Omelia della Messa alla Route dei Giovani
01-06-2019
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Il vescovo ha accompagnato i ragazzi a riflettere su un tema che spesso ha riproposto ad adolescenti e giovani: la ricerca di una propria strada nella tensione tra il trovare le risposte nella propria vita e il rischio di immobilismo nell’attesa di quelle giuste.

Abitare questo limite, abitare la ferita tra la tensione a qualcosa di alto e lo stato di ricerca è la via indicata dal vescovo. Senza timori, e consapevoli di non essere soli: «Dovremmo poter dire sempre “EccoCi!”. Ciò dimostra che nella mia disponibilità ci sarà sempre uno accanto a me che mi stringe la mano per camminare insieme».

Di seguito il testo integrale dell’omelia.


Uomini di galilea, perché state a guardare verso il cielo?

Omelia della Messa alla Route dei Giovani

Introduzione

Doveva essere proprio così, all’inizio, intorno all’anno 30, quando Gesù incontrò i primi discepoli sulla riva del Lago di Galilea. Quel lago è due volte il lago che abbiamo di fronte, le cui misure dicono che il punto più profondo è di 143 metri, con una media di 70,9 m, mentre il lago di Galilea ha una profondità massima di 43 m, essendo un lago che subisce una forte evaporazione, perché si trova in una zona depressa.

È un lago simile a questo, ma certo Gesù non aveva schierati davanti a sé i giovani che tra voi partiranno per la missione! I suoi erano confusi tra la folla. A un certo punto Gesù dice: “Io vado a pescare!” (cfr. Mt 4,19; Mc 1,17Lc 5,4.10) Questa espressione è la stessa che Pietro ripete, sempre sul lago di Galilea, dopo la resurrezione (Gv 21,3a). Il Vangelo di Giovanni aggiunge che “in quella notte non presero nulla” (Gv 21,3b). Così si sperimenta una sproporzione, uno scarto, una distanza, un’ascesa, una salita tipica della vostra età.

Una psicanalista, Julia Kristeva, di origine bulgara, che vive e opera in Francia, e che fin da giovane ha studiato questi grandi fenomeni, ripresi nel suo libro dal titolo Bisogno di credere. Un punto di vista laico, Roma, Donzelli, 2006, afferma che noi coltiviamo dentro un incredibile bisogno di credere – usa proprio questa espressione! L’età nella quale questo bisogno è massimamente concentrato è l’adolescenza, la prima giovinezza. È il periodo nel quale uno deve credere al suo ideale e deve misurarlo poi col suo reale vissuto, che gli verrà incontro giorno per giorno. L’ideale è ciò che vediamo allo specchio, ciò che mettiamo sul profilo di Facebook e che cambiamo ogni giorno, perché la vetrina sia sempre rinnovata, mentre poi c’è il reale, ciò che realmente siamo e viviamo. Questo scarto tuttavia non è una condanna, ma è una sproporzione importante per l’adolescente-giovane. Al contrario noi adulti tendiamo ad accorciare questo scarto, questa ascensione, questo sguardo in alto. Se uno lo vive in modo drammatico come una lacerazione, una separazione, tra un “io”, quasi hollywoodiano, e poi il sé reale, che è diverso, depresso… allora si comprendono molte tensioni adolescenziali.

Ho voluto introdurmi con queste espressioni perché credo che in quell’inizio del Vangelo, che ho citato prima, anche per Gesù sia stata una situazione simile. Certo i discepoli non avevano il nostro modo di vedere la vita e attendevano piuttosto un Messia nella Palestina di quei tempi, che non era messa meglio di oggi, occupata allora dai Romani. Attendevano un Messia che venisse con braccio forte e disteso, e sistemasse tutte le cose quasi con un tocco di bacchetta magica! Questa è la grande tentazione: immaginare che la vita si possa sistemare con un tocco di bacchetta magica, e c’è chi anche oggi ci incanta con queste promesse.

Invece le cose belle stanno dentro questo scarto, che se talvolta diventa una ferita, una ferita aperta e guardata come una scommessa, ci fa decidere di partire! Con i ragazzi vestiti delle maglie azzurre, con cui ho fatto volentieri la foto, ci diamo questo appuntamento: tornate a casa con la vostra maglietta azzurra logora, consunta – anche come prova che siete stati in Africa o in America Latina! – però ritornate a casa per raccontare quello che avete visto e vissuto. Non saranno cose strane, cose difficili, però vedrete come laggiù la vita vi mette in sesto, come il reale diventa così forte e potente da essere lì nella sua bellezza. Vi metterà in ordine anche le paturnie che ci fanno soffrire magari durante l’anno! E questo sarà l’effetto collaterale previsto…

Per tutti noi, che invece rimaniamo, possiamo vivere la stessa cosa anche stando a casa. Partiremo idealmente da questa sponda, come dal mare di Galilea, da una riva proprio uguale a questa …

E dentro questo scarto, questa apertura, questa ferita, oggi cosa portiamo? Ci facciamo guidare brevemente da una frase, tratta dagli Atti degli Apostoli:

“Uomini di Galilea, perché state a guardare verso il cielo?” (At 1,11)

La domanda di questi uomini in bianche vesti è provocatoria, perché essi ci dicono di non guardare in alto, per non perdere l’aderenza dei piedi alla terra. Questo è il vero significato dell’espressione! E, l’aderenza dei piedi alla terra, quale significato ha? Ci viene detto al versetto 7 dello stesso primo capitolo degli Atti:

1. «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere» (At 1,7). Dunque la prima cosa che vi dico è: non spetta a noi conoscere i tempi, i momenti! Significa che non spetta a noi tenere in mano il tempo, dominarlo, mettere tutto sul calendario, senza lasciare uno spazio libero, soprattutto quello del cuore. Vedrete che la prima cosa drammatica, e ugualmente bellissima, in Africa o in America Latina è la seguente: non c’è più il tempo, o meglio il tempo è un’altra cosa. Quando ci diranno: “Ci vediamo verso il calar del sole o il sorgere del sole!” Vi chiederete: quand’è di preciso? Non sappiamo! Là si vive un’altra dimensione del tempo, già a livello umano, perché non è il tempo da rincorrere, ma il tempo che è per noi. Quest’aspetto tuttavia, che è solo il lato esterno, ne custodisce uno più profondo. Il tempo è il luogo dove noi facciamo le esperienze più belle: se noi vogliamo prevedere tutto, niente di buono bussa alla nostra porta, niente di bello può sorprenderci, cioè può prenderci-come-da-sopra. Dunque alla domanda «perché state a guardare il cielo?», la risposta è che non spetta a noi conoscere i tempi e i momenti! È una cosa che vale per tutti noi, anche per noi che rimarremo a casa. Vi invito a vivere un anno in questo modo, un anno nel quale ci concediamo almeno mezza giornata in una settimana, per assaporare la vita come ci viene incontro, non come la vogliamo dominare noi. Bisognerebbe proprio sbarrarla sulla nostra agenda. Magari ci capita qualcosa di imprevedibile, che sta lì a bussare alla nostra porta!

2. «Ma riceverete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi» (At 1,8). Il tempo opportuno non è un tempo vuoto, un tempo da ammazzare, ma è un tempo che ci fa sentire una mancanza, è lo spazio nel quale si riceve una forza che scende dall’alto. Se vi raccontassi la mia esperienza, le cose più belle della mia vita sono accadute così, le ho ricevute così. Noi abbiamo bisogno di credere che in questo scarto, in questo attraversamento, non siamo noi da soli! Non è facile perché, se uno si guarda, sembra che debba fare i conti solo con se stesso, in una solitudine estrema, ma questa non è una cosa bella.

Provo con una domanda: “Noi avremmo tre persone di cui poterci fidare ciecamente?” Nella mia esperienza io le ho trovate, conquistate con fatica…  Queste persone sono un po’ la forza dello Spirito che vi sta accanto, sono un segno nella storia della promessa: “Ricevete forza dello Spirito dall’alto”. A volte la vita è stata dura, però non mi ha mai abbandonato. Ho imparato per esempio la “regola delle tre notti!” Quando mi è accaduto di vivere un fatto molto difficile, ho appreso che non ci si deve mai agitare subito, ma è saggio dormirci su tre notti! Poi comincia a cambiare il modo di percepirlo, magari resta come è, tale e quale, però cambia lo sguardo, cambia la tua disponibilità, cambiano le tue cose, perché la regola è che dopo la pioggia o la tempesta torna sempre il sereno…

Queste stagioni dell’anima, rappresentate dalla tempesta e dal sereno, sono difficili da gestire dentro le nostre emozioni. Sono tutti frammenti di quello Spirito che viene dall’alto e che si rendono presenti nelle persone, negli amici, negli educatori, nei referenti… e che si rendono presenti anche negli eventi, negli incontri. È anche il recupero della dimensione del “noi” – la dimensione di quell’ “EccoCi” che è il tema di oggi. Dovremmo poter dire sempre “EccoCi!”. Ciò dimostra che nella mia disponibilità ci sarà sempre uno accanto a me che mi stringe la mano per camminare insieme. Come ho detto in altre occasioni, il motivo vero per cui Gesù li manda a due a due (cfr Mc 6,7 e Lc 10,1) è richiamato dal libro del Qoèlet, il quale dice che “è meglio essere in due che uno solo, perché se uno cade, l’altro lo sostiene” (Qo 4,9). È una sorta di proverbio dell’Antico Testamento, molto semplice, che però ha dentro una sapienza e una bellezza infinita. Ecco il senso di questo “EccoCi”! È anche il senso della Chiesa, che non è una sovrastruttura, ma è il legame senza il quale noi moriremmo. Se noi restassimo soli, moriremmo!

Lo diciamo anche di fronte ai fatti di cui abbiamo sentito parlare in questi giorni: non sappiamo cosa si è annidato nel cuore e nella mente di quei due giovani e non possiamo valutare questa follia, ma è significativo che non ci sia stato intorno nessuno che li aiutasse a portare avanti una difficile situazione ed è accaduta la tragedia per il piccolo Leonardo!

  1. “…e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra” (At 1,8).

Stamani si è parlato dei santi Giulio e Giuliano, partiti da Ègina. Questo tempo, questo spazio, che noi non dobbiamo dominare e per il quale riceviamo una forza dall’alto è – dice san Luca – il tempo dalla testimonianza! San Luca è il primo che genialmente interpreta l’assenza di Gesù – dall’ascensione Gesù non è più presente col suo corpo in mezzo a noi – non come un tempo vuoto, ma come il tempo della testimonianza.

Cosa significa “testimonianza”? Vuol dire che io sono capace di indicare a te la presenza di un altro. Indicarlo a te con il tuo linguaggio, ma attraverso la mia vita: ti dico che io ho avuto un “incontro” importante, talmente decisivo che me lo fa attestare a te! Il testimone è come attratto da due poli contrapposti: da un lato, verso il destinatario, dall’altro, verso chi lo manda…

Ricordate, cari giovani che partite (ma anche voi che restate), di non vivere con l’intento di essere solo bravi: date agli altri quel che potete, date e ricevete da loro quel che possono darvi. È uno scambio simbolico tra voi e loro. Porterete voi e le vostre cose, ma loro vi daranno le loro esperienze: il senso della comunità, dell’appartenenza, del tempo, cose che noi ormai abbiamo dimenticato. Noi dobbiamo essere testimoni di tutto questo.

Possiamo anche noi prendere la nostra barca e la nostra barca può arrivare anche semplicemente solo all’Isola San Giulio… Ho già ricordato stamani il funerale della Madre Badessa, Anna Maria Cànopi, che ha abitato in quel luogo ben quarantacinque anni. Una domenica di un anno fa, era il 26 giugno dello scorso anno, al mio gruppo famiglie la Madre ha dato una risposta bellissima. In particolare, a chi le aveva chiesto qual era il senso della loro vita, la Madre, rispondendo, usò questa immagine: “Noi siamo come una centrale idroelettrica” – una volta si diceva che il monastero era come il parafulmine, usando un’immagine un po’ difensiva –. L’immagine utilizzata richiama il fatto che una centrale idroelettrica trasforma l’energia cinetica dell’acqua, o un’energia di altro tipo, per trasmetterla verso l’esterno come energia elettrica. E, come se l’energia continuamente ricevuta dall’alto coi doni dello Spirito, venga continuamente trasformata, nella preghiera, nell’ascolto e nella vita comune del monastero, e rilasciata come corrente di vita nello Spirito che alimenta la nostra povera esistenza quotidiana. In effetti tutte le volte che passo di qui mi interrogo e chiedo anche agli adulti e alle autorità di provare ad immaginare questa situazione: se per quarantacinque anni sull’Isola San Giulio non ci fossero state queste monache, cosa ne sarebbe stato di questo luogo!? Dal giorno della morte della Madre al giorno del funerale sono passate a salutarla circa ventimila persone. Questo è il segno: la “centrale idroelettrica” che trasforma energia! Questo è il testimone: è chi accoglie talmente tanta energia che viene dall’alto, e la trasforma e trasmette naturalmente… a chi lo incontra, perché gli trasmette che l’incontro con Gesù è stato e continua ad essere decisivo per lui. Un incontro contagioso!

Questo è il mio augurio: accompagniamo con la preghiera questi nostri amici che partono, con un po’ di santa nostalgia, ma desidero che stasera tutti voi, quando andrete a casa, possiate dire: “Abbiamo trascorso e vissuto una bella giornata!” Ripeto. Che possiate dire: “è stato un bel giorno di festa!”.

+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara