Author: andrea79

Route 2022, le parole del vescovo Franco Giulio ai giovani

 

Sabato 4 giugno, in Val Vigezzo, si è tenuta la Route diocesana dei giovani, sul tema “Avrò cura di te”. Circa 400 giovani dai 16 ai 30 anni hanno percorso il cammino da Santa Maria Maggiore a Re, riflettendo su alcuni brani della Fratelli tutti di papa Francesco.


Route dei giovani 2022. Amicizia, fraternità, fratellanza
L’intervento di apertura e l’omelia alla messa conclusiva alla Route 2022
04-06-2022
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Alla conclusione la messa celebrata nel Santuario della Madonna del Sangue, insieme ai partecipanti agli esercizi spirituali diocesani per le famiglie.

Di seguito i testi integrali dell’intervento del vescovo Franco Giulio che ha aperto la giornata, e della sua omelia conclusiva.

 

Amicizia, fraternità, fratellanza

Route dei giovani in Val Vigezzo, riflessione prima del cammino

Benvenuti in una delle valli più belle della nostra diocesi, detta “dei pittori” e “degli spazzacamini”. Ieri sembrava tornato l’inverno e oggi ci è donata una bellissima giornata! Sono contento perché rispetto all’anno scorso siamo aumentati di un centinaio, e anche se le lumache dopo un temporale fanno fatica a uscire, impegniamoci tutti così da arrivare al migliaio entro un paio d’anni. Così almeno mi piacerebbe!

Il tema di oggi è costruito su tre frasi e tre parole.

Le tre frasi

“Maestro, cosa devo fare per ereditare la vita piena?” (Lc 10,25)

Il cammino di oggi ha a che fare con la nostra vita “piena”. Non riguarda solo un sabato o semplicemente un altro dei nostri giorni o le vacanze, ma si tratta di riempire la vita intera.  La prima frase la leggiamo nel racconto dei racconti, nella parabola del Buon Samaritano. “Maestro che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. La nostra traduzione, per oggi, è “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita piena?”. Il cammino di oggi è qualcosa che ha a che fare con la nostra vita in pienezza. Non è un cammino limitato alla giornata di oggi, ma è qualcosa che ci aiuta a “riempire la vita”, che è vissuta così in pienezza da sfociare nell’eternità.

“Chi è il mio prossimo?” (Lc 10,29)

La seconda frase è “Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: Chi è il mio prossimo?”. Questo modo di porre la domanda è un modo per giustificarsi, è un alibi. Gesù alla fine del racconto la cambierà: “Sei tu che ti devi fare prossimo”. Il prossimo è già lì: è quello che è lì dietro, che hai di fianco, che è là in fondo, è quello che non è venuto, è quello che sta fuori dalla staccionata. Il prossimo è già lì: non bisogna domandarsi “chi è?”. Occorre farsi vicini.

“Abbi cura di lui” (Lc 10, 35b)

La terza frase è quella più breve: “Abbi cura di lui”. Abbiamo un po’ tutti il delirio di onnipotenza di essere il Buon Samaritano e di essere migliori del levita e del sacerdote della parabola. Noi non siamo e non potremo mai essere il Buon Samaritano. Il Buon Samaritano è Gesù. E rimane solo lui. Ma Egli è il protagonista del racconto  e vuole mostrarci almeno come occupare bene il posto dell’albergatore. Il nostro posto è quello dell’albergatore. Dice il testo:

“Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno»”. (Lc 10,35)

Questo è il “tempo nostro”! Noi siamo nel tempo di mezzo: Gesù ci dà le due monete d’argento per l’oggi (quello che Gesù ha pagato per noi) e poi al suo ritorno ci darà il saldo. Nessuno di noi pensi di salvare il mondo da solo. Noi diamo il nostro piccolo contributo, ma solo se stiamo in quest’ottica. In questo breve passo sta il messaggio, il punto critico della parabola.

Noi siamo qui, siamo nel mondo, per aver cura dell’altro, in modo tale che l’altro ci faccia ritrovare noi stessi. Senza aver cura dell’altro non ritroviamo noi stessi. Come i bambini, per scoprire chi sono, devono lasciarsi guardare dal sorriso della madre, così noi perveniamo a noi stessi lasciandoci guardare dal sorriso, dalla presenza, dalla vicinanza, dalla prossimità dell’altro. Ma per lasciarci guardare così, abbiamo bisogno di uscire da noi stessi e andare verso l’altro.

Le tre parole

Le tre parole sono: amicizia, fraternità e fratellanza. Sono tre parole dai confini mobili, porosi. Però non sono uguali. E purtroppo noi le confondiamo.

Amicizia

Amicizia è voler bene all’altro. I poeti e i romanzieri dell’Ottocento le hanno definite come “affinità elettive”: “io mi trovo bene con questa persona”. L’amicizia può assumere anche la forma dell’amore tra un uomo e una donna. L’altro ha fiducia in me e io voglio bene a lui o a lei. L’amicizia non è per tutti, neanche per tanti, ma è per pochi. Procedendo nella vita, l’amicizia è come una piramide: da adolescente hai trenta amici, poi dieci, e infine sono tre. Se uno non ha amici, deve essere un po’ preoccupato. Perché significa che è ripiegato su di sé.

Fraternità

Fraternità non è solo voler bene all’altro, ma è voler il bene dell’altro e con l’altro. È un passo in più. La fraternità dovrebbe realizzarsi nelle nostre comunità, le quali dovrebbero avere non tanto dei confini, ma piuttosto essere uno spazio aperto che permetta di vedere oltre. Volere il bene dell’altro e con l’altro significa, ad esempio, che frequenterò un oratorio, un gruppo giovanile, una comunità non solo se mi trovo bene, ma anche quando è difficile, quando bisogna stringere i denti per costruire qualcosa insieme. Dovremmo parlare più che di gruppo, dove puoi anche star bene, di “squadra”, con la quale lotti e combatti per vincere insieme. La fraternità è costruire dei legami stabili: io mi lego a te perché voglio il tuo bene per te e con te.

Fratellanza

La terza parola, molto presente nell’enciclica di papa Francesco, Fratelli tutti, che oggi fa da filo rosso al nostro cammino, è fratellanza. La fraternità è lo zoccolo duro della fratellanza, che è più ampia e che riguarda tutti, anche quelli che sono al di là, che stanno oltre, persino quelli che non ci considerano. Fratellanza è volere insieme il bene comune. Ha a che fare con il bene comune, con la casa comune, e – come dice il Papa – con l’ecologia integrale. Per vivere bene dentro le nostre comunità, abbiamo bisogno che esse siano aperte a un sentimento di fratellanza. Dobbiamo costruire la casa comune.

Adesso voi camminerete lungo la Val Vigezzo. Vedrete che è una valle stupenda. È baciata dal sole. Questa è l’immagine della fratellanza; nessuno può sciupare questo ambiente e neppure i rapporti tra le persone, poiché l’ecologia non riguarda solo l’ambiente ma riguarda le persone, il modo di costruire le case e le strade, di raccogliere le cartacce, di non scrivere sui muri. Questo è il sentimento di fratellanza. Portiamolo nel cuore, nella preghiera, anche durante la Route. È un sentimento che purtroppo in questo momento è molto ferito anche dalla guerra. La cortina di ferro, che sembrava disciolta nel 1989, è riemersa in tutta la sua drammaticità. L’avvertenza finale è la stessa dell’inizio: “cosa devo fare per avere la vita piena?” Non si può avere la vita piena da soli. Per questo gli uomini e le donne oggi sono molto tristi, perché vogliono essere felici da soli. È un segreto sui cui bisogna riflettere bene. Auguri e buona Route.


I tre volti dello Spirito dell’Amore

Route dei giovani in Val Vigezzo, omelia alla messa conclusiva 

  1. Introduzione

Siamo alla vigilia di Pentecoste, parola che deriva dal greco e che significa cinquanta. Infatti, nella notte che scenderà tra qualche ora, cadranno esattamente cinquanta giorni dalla notte di Pasqua. Presso gli ebrei, la Pentecoste era il giorno del rinnovamento dell’alleanza e del dono della Legge ed era collegata con la festa della mietitura.

Questa mattina abbiamo incominciato il nostro cammino attorno a tre parole e ora vorrei riprenderle. Adesso sono ancor più significative con il guadagno, con l’arricchimento della vostra riflessione, dei vostri incontri, dei vostri pensieri e delle vostre azioni durante la Route. Aggiungo ora qualche piccolo approfondimento.

Le tre parole di riferimento sono: amicizia, fraternità e fratellanza e vi spiegherò perché queste tre parole, rispetto alla breve descrizione che ho fatto nella mattinata, abbiano bisogno del valore aggiunto dello Spirito Santo.

  1. Amicizia

Amicizia è voler bene all’altro. Perché ci vuole una marcia in più per volere bene all’altro? Di per sé sarebbe una cosa naturale: abbiamo parlato, infatti, di affinità elettive… Tuttavia, ci accorgiamo che è difficile costruire un’amicizia vera. Voler bene all’altro comporta che l’altro riconosca anche il nostro bene, che ci sia una sorta di reciprocità. E comporta di vedere l’altro non solo come “concorrente”, ma come “promettente”. Molti oggi vedono gli altri come concorrenti: la vita diventa una competizione, in tutte le sue sfaccettature. È invece difficile vedere l’altro come una promessa, come qualcuno che mi stimola ad arricchirmi e a crescere.

L’amico vero è l’amico promettente. Il che può prendere una scala di colori molto diversa, che può arrivare fino al voler bene all’altro che è altro da me, il bene tra l’uomo e la donna. Fino alla maxima amicitia, come la definisce San Tommaso: l’amicizia “più grande”. È un superlativo, che nell’esperienza dell’innamoramento può diventare il matrimonio. In tal caso è volere bene all’altro in modo che l’altro sia capace di essere per me una promessa, che mi mette in cammino, mi fa sognare insieme con lui o con lei, mi fa costruire un progetto così poco teorico, ma assai pratico che va oltre i due: la vita felice e il dono dei figli. Nell’amicizia c’è tutto questo, e ha tutte le scale della gradazione di colore: amicizia è il voler bene all’altro. Per questo l’amicizia è un evento spirituale, è il segno che ha bisogno anche dello Spirito, quello Santo, per durare a lungo nel tempo.

  1. Fraternità

L’amicizia, tuttavia, non saprebbe stare in piedi se non ci fosse la fraternità. Fraternità non è solo volere bene all’altro, ma volere il bene dell’altro e con l’altro. È stabilire, cioè, dei legami con l’altra persona. In genere la fraternità si applica alla fraternità cristiana. Abbiamo detto questa mattina che si sta in un gruppo giovanile non solo perché ci si sente bene – o lo abbandona, quando non si sente più bene – ma perché costruisce un po’ di strada insieme alle altre persone. E “fare squadra” è importante, perché da solo cresco meno bene. Crescendo insieme, cresco con dei legami. Questo vale ancora di più nella società di oggi, perché molti sono figli unici. Chi ha dei fratelli, fa esperienza di fraternità in casa e questa esperienza si universalizza nell’esperienza di fraternità cristiana.

Coltivate bene il momento della fraternità: questa è la Chiesa. Per questo la Chiesa è l’evento dello Spirito. La Chiesa serve innanzitutto per cominciare a vivere bene in terra e poi per andare in Paradiso, costruendo quei legami che creano l’ordito per un tessuto forte e che influiscono poi anche sulla vita sociale. Se noi facessimo bene la Chiesa, avremmo già trasformato il mondo. Se la Chiesa è il luogo dove vado solo perché mi sento bene, perché cerco qualche compiacimento, tutto questo durerà solo una stagione. La Chiesa come luogo dello Spirito Santo è lo spazio dei legami che non vengono solo dalla carne e dal sangue, ma sono tenuti insieme dal dono dello Spirito.

  1. Fratellanza

La terza parola è altrettanto importante: fratellanza. Fratellanza non è solo cercare il bene dell’altro e con l’altro, ma è cercare il bene dell’altro per costruire un mondo ospitale, una società giusta, un mondo abitabile, una casa comune. La fratellanza è tutto ciò. Per questo la fraternità non può avere confini che sono pareti, ma deve avere confini porosi, che permettono di vedere oltre, di andare al di là. Ci sono anche coloro che sono al di fuori, verso i quali dobbiamo andare. Essi ci fanno accorgere che ci sono i diversi, che non sono antagonisti, ma semplicemente quelli che ci stimolano ancora una volta ad uscire. La fratellanza è importante oggi, per vivere in questo mondo, come correttivo radicale alle forme di campanilismo, di sovranismo, di isolazionismo. L’altro non è sempre simpatico. È interessante ricordare i tre personaggi della parabola del “buon” samaritano (cfr. Lc 10,25-37): il levita e il sacerdote che avrebbero avuto il ruolo di prestare aiuto all’altro sono andati via per adempiere, secondo il loro ruolo istituito, ciò che era previsto per il culto al Tempio; il samaritano, che era un escluso e uno “scomunicato”, inverte il suo ruolo e diventa il prossimo. Anche la fratellanza si alimenta al dono dello Spirito Santo, che opera attraverso e al di là delle pur lodevoli e buone realizzazioni storiche della fraternità.

  1. Conclusione

Se quest’anno riusciremo a portare a casa la convinzione di essere giovani che sanno vivere queste tre movimenti dell’amore, saremmo già a buon punto. Amore è una parola liquida, forse oggi è diventata persino “gassosa”.

Lo Spirito Santo è l’amore, perché è il motore di questi tre movimenti. Ne è la regola interiore. Non è la Legge scritta su pietra, che ci fa diventare il cuore di pietra, ma è la Legge che penetra nella carne, che ci fa diventare il cuore di carne, capace di amare, di stare vicino, di comprendere, di appassionarsi, di creare e di costruire insieme la casa comune.

Termino con un pensiero semplice. Usciremo certamente da questa situazione, così come hanno avuto termine la prima e la seconda guerra mondiale. Non siate così timorosi da pensare che non usciremo da questa situazione! È molto importante, però, la ripartenza. Vorrei che i giovani della nostra diocesi potessero ripartire bene all’inizio del terzo decennio del secolo XXI, che per certi aspetti ricorda la ripartenza alla fine del secondo conflitto mondiale, anche se in quel caso fu molto più complicato e difficile, come ci fanno comprendere i nostri libri di storia.

Mi piacerebbe che la nostra ripartenza, dal 2020 al 2030, desse un colpo d’ala, uno scatto d’orgoglio, per riuscire a costruire una casa, una comunità e una società più belle. Nella casa cresca l’amicizia, nella comunità abiti la fraternità, nella società fiorisca la fratellanza. E sapete quale sarà la sorpresa? Il mondo che costruirete è quello di cui potrete beneficiare. È il mondo che vi farà felici o meno felici. Con tanti auguri!

+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara

Prendi il largo! Le parole del vescovo alla veglia delle palme dei giovani

Nella sera di sabato 9 aprile, il vescovo Franco Giulio Brambilla ha presieduto la Veglia delle Palme, tradizionale incontro dei giovani della diocesi, che quest’anno si è tenuto ad Orta San Giulio e al Sacro Monte. Di seguito il testo integrale del suo intervento durante la celebrazione.

Prendi il largo!

Veglia delle Palme 2022

In questa sera, nella quale udiamo il vento stormire tra le fronde e, come dice la Scrittura, non sappiamo donde venga e dove vada (cfr. Gv 3,8), e sentiamo anche qualche sua gelida folata che, con le spore portate nell’aria, annuncia tuttavia la primavera, vogliamo sostare un momento a riflettere durante la Veglia delle Palme. Dopo averla celebrata, negli ultimi due anni, collegati in streaming, oggi finalmente siamo tornati nel nostro ambiente e ci ritroviamo in uno dei punti più belli della diocesi: il Sacro Monte d’Orta.

Correva il 13 novembre del 386, il giorno del suo compleanno, e Agostino s’era ritirato a Cassiciacum – di cui si hanno due identificazioni di luogo, Casciago sul lago di Varese o Cassago in Brianza – e si era già incamminato per la strada della conversione, anche se poi avrebbe aspettato la primavera, nella notte di Pasqua tra il 24 e il 25 aprile del 387, per essere battezzato da sant’Ambrogio. A Cassiciacum, Agostino s’era ritirato con un gruppo di amici, cercatori della verità. Egli, che era un grande retore – ad un certo punto dirà di sé che era solo un venditore di parole –, a tavola durante la festa di compleanno si domandava che cosa fosse la felicità. La madre, Monica, che aveva confezionato un dolce per l’occasione, motteggiava con Agostino e i suoi amici, sodali di riflessione e di meditazione, discettando sulla dolcezza della torta e passando con naturalezza al dolce fascino della felicità. Ad un certo punto, nasce tra i commensali la domanda: “Per te che cos’è la felicità?”. La risposta si trova in un testo dello stesso periodo, I Soliloquia, in cui Agostino sembra rispondere idealmente con un’espressione lapidaria, che mi è rimasta nel cuore, imparandola anche in latino, e che afferma: “Deum et animam scire cupio”; “Bramo conoscere Dio e l’anima!”. In questo ideale dialogo la voce della coscienza gli domanda: “Niente altro?” e Agostino risponde prontamente: “Assolutamente null’altro!”.


Prendi il largo!

Veglia delle Palme 2022
09-04-2022
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Ecco dunque: mentre tu conosci Dio, conosci anche la tua anima, conosci il tuo cuore, ma per conoscere Dio occorre bramarlo, bisogna desiderarlo. Non c’è altro di più importante nella tua vita! Il verbo latino cupio esprime proprio il desiderio, l’amore erotico, travolgente, appassionato, interminabile. In tal modo Agostino iniziò la sua conversione. Ci vorranno, poi, altri dieci anni di approfondimento delle Sacre Scritture per diventare veramente cristiano, però in questa espressione “desidero, bramo conoscere Dio e l’anima” è contenuto tutto il suo desiderio, tutta la sua passione, tutto il suo slancio.

Allora per lasciarci istruire e guidare dall’affermazione di Agostino, ho scelto un racconto dal Vangelo di Luca (5,1-11) a fare da canovaccio alla riflessione di stasera.

 

  1. Una scena di vita ordinaria: Gesù sale sulla nostra barca

Il racconto si apre con una scena di vita ordinaria: Gesù sale sulla nostra barca. L’abbiamo ascoltato poc’anzi ma, mentre io ve lo illustro, scorrete ancora con gli occhi il testo che viene proiettato sullo schermo. I primi tre versetti sono d’una bellezza incomparabile, scritti in un greco, che ci presenta quasi un quadro a colori pastello:

Lc 5      1Mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, 2vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. 3Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca.

Gesù sale sulla nostra barca, che rappresenta la vita ordinaria. Gesù prende dimora presso di noi. Siamo qui questa sera dopo due anni tremendi, nei quali abbiamo sperimentato l’ansia, la paura, la depressione, il guardar fuori dalla finestra, il messaggiare vorticosamente, pur di trovare un contatto o un legame: siamo stati molto tempo con il fiato sospeso. Ebbene stasera Gesù si accosta alla nostra barca e ci dice di osservare, di capire il nostro punto di partenza, che dipende dall’età nella quale abbiamo vissuto gli anni 2020-2021. Era il marzo di due anni fa e proprio in questo mese ricorre il biennio dall’inizio della pandemia. Come ho ripetuto molte volte ai nostri giovani sacerdoti, m’immagino i ragazzi e le ragazze che hanno frequentato la terza media e la prima superiore e che si sono sentiti derubati di questi due anni; così è accaduto ugualmente per chi ha finito la quinta superiore ed è entrato all’università senza poter gustare il suo essere matricola, un tempo di quelli più esaltanti della vita… perché con esso si esce per la prima volta di casa e si sogna il domani. Gesù ci dice: “fammi un po’ di spazio sulla tua barca!”.

  

  1. Prendi il largo (Duc in altum): Gesù, Pietro e noi

Facciamo un passo avanti:

4Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca».

L’espressione in italiano “prendi il largo”, in latino è “duc in altum”, un modo di dire bellissimo che può essere tradotto anche in italiano quando diciamo: “vado in alto mare”. L’espressione andare in alto mare è molto significativa, perché esprime bene la situazione di chi si mette in viaggio in mare e, quando perde la visione della terra alle spalle, quello che sta davanti gli appare come un orizzonte senza confine, senza termine, appunto sconfinato. Osservate che mentre Gesù dice a Pietro: Tu prendi il largo”, subito aggiunge: “Gettate (voi) le vostre reti per la pesca”. Dapprima parla a Pietro come singolo e poi allarga lo sguardo a tutti i suoi compagni, agli altri discepoli. Noteremo che il gioco tra singolare e plurale è decisivo nel percorso di questa sera, persino in questo luogo pieno di fascino. Parla a ciascuno di voi, parla a te, al tuo cuore, epperò per gettare le reti occorre essere in molti. Per fare un’impresa, per costruire una storia comune, per sognare insieme, ho bisogno assolutamente di partire da me, ma non basto io da solo, devo gettare le reti con gli altri!

“Prendi il largo e gettate le reti per la pesca”. Pensate a tutte quelle persone, uomini e donne, per cui è risuonata, lungo questi due millenni di storia, questa frase del Vangelo, che è stata decisiva per la loro vita. Quest’espressione del Vangelo è una frase, ripetuta da infiniti testimoni per chi era tentato di scoraggiarsi, per chi non voleva più partire, per chi era tentato di non rischiare più: “Prendi il largo!”.

 

  1. Se guardo le mie mani – se ascolto la sua voce: il mio tempo – la tua Parola

E ora veniamo al terzo passo:

5Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti».

Nel pomeriggio abbiamo ascoltato l’attore Pietro Sarubbi che, nel suo monologo, ha bene interpretato il temperamento di Pietro, con quell’imprinting psicologico che emerge dai quattro vangeli. Se fosse rimasto stasera, anche nel nostro caso avrebbe saputo esprimere bene le parole dette a Gesù, dopo la delusione della pesca notturna, andata a vuoto. Nonostante ciò, Pietro aggiunge: “ma sulla tua Parola getterò le reti!”. In questa famosa espressione, noi vediamo i due elementi che sono in gioco: se guardo le mie mani, le mie reti, la mia esperienza, la pesca che ho già fatto, vedo che non ho preso nulla, e non posso sperare molto da un nuovo tentativo, ma se ascolto la sua voce – sulla tua Parola – getterò le reti.

Quante persone ho conosciuto nella mia vita che erano indecise, non sapevano che strada prendere. Erano come se fossero in una rotonda e continuavano a girare in essa, senza mai imboccare una strada! Sono passati giorni e giorni, mesi e mesi, anni e anni… ed erano ancora lì a girare intorno, sempre nella stessa rotonda; come quell’amico che faceva zapping vedendo spezzoni di film, di musica, di talk-show ogni sera, ma non era mai riuscito a seguire e a vivere una storia fino in fondo…

Arriva, allora, il Signore che ti fa esclamare: se guardo le mie mani sono uno che ha provato tutto, se ascolto la tua voce invece sono capace di prendere una strada. La via per rischiare, per scegliere una direzione, che significa certamente lasciare le altre, ma intanto mi aiuta a costruire una storia, la mia storia. E come se il Signore mi dicesse: segui il tuo racconto, costruisci la tua esperienza, vedrai che diventi importante, che riesci ad ottenere anche qualche buon risultato.

Questo è il momento intimo del racconto. Il tempo sembra finito, come insinua l’espressione di Pietro: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla…». Però se ascolto la sua parola…, allora s’apre ancora il cammino. Quando sarete in difficoltà, tenete nel cuore e ricordate solo queste due espressioni: “Prendi il largo”, “Sulla tua parola getterò le reti”.

Tante volte saremo invitati nei prossimi dieci anni, nei quali stiamo crescendo, ad ascoltare la parola di Gesù che ci invita e ci dice: “Getta la rete!”. Questo dialogo intimo con Lui, tuttavia, tra il mio tempo e il mio cuore, il mio sogno, il mio desiderio e la sua Parola che ci invita a gettare le reti, non basta, perché è senza mondo, senza contesto. Ecco che allora dobbiamo fare un altro passo in avanti.

6Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano”.

La pesca abbondante, la pesca che chiamiamo miracolosa, non può realizzarsi solo con le proprie forze, solo ascoltando la sua voce, ma ha bisogno anche dell’aiuto delle mani degli altri.

 

  1. Se stringo le mani degli altri: il “noi” insieme e che pesca che fa

Ecco infatti come continua il racconto:

7Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli”.

Sul tuo cammino, sul tuo percorso, nella scelta della tua vocazione, nella scelta della professione, persino nel cammino con la persona amata, hai bisogno che qualcuno venga ad aiutarti, ti rincuori, ti rassicuri, ti faccia percepire che stai facendo la scelta giusta, ti faccia da specchio e mostri il tuo vero volto, come i volti di coloro che prima abbiamo visto scorrere nel video e che hanno mostrato la loro sorpresa, la solarità, la smorfia, le loro preoccupazioni… Così, solo il “noi” insieme  ci fa capire come è possibile tirare su, nella barca, una pesca abbondante.

“Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare”.

Veleggiamo ormai verso il tempo estivo: ci sarà un momento in cui tutte le nostre parrocchie, i gruppi e i movimenti, dagli scout alle altre associazioni, e molti di noi si dedicheranno ad essere animatori ed educatori dei ragazzi. Vi auguro che la pesca di quest’anno sia abbondante!

Come ha sottolineato questa sera con il suo sguardo da laico, ma limpido, il sindaco di Orta San Giulio, Giorgio Angeleri, sono anch’io contento che stasera siano presenti tanti giovani. In effetti, siete i primi ad uscir fuori – come escono le lumache dopo la pioggia! – per annusare il futuro. Invece, gli anziani faticano ancora ad uscire di casa. Abbiamo bisogno di essere per loro quasi trascinanti, indicare loro una strada per uscire. Durante il primo lockdown, c’era un modo di dire molto ripetuto: “Dopo non sarà più come prima!”, ma abbiamo già costatato che non è proprio così. Dipende! Per ora molte cose non sono diverse da come erano prima.

Che pesca che fa? Se stringo le mani degli altri, se gli altri mi aiutano, la mia pesca, la nostra pesca sarà abbondante. Mi piace sottolineare una cosa in questo passaggio. Abbiamo sentito dall’attore, che impersonava l’apostolo Pietro, una spiegazione quasi midrashica che non c’è nel Vangelo canonico: il pesce abbondante è stato poi distribuito a coloro che erano accorsi sulla spiaggia. Nella sua narrazione, Sarubbi ha sviluppato il racconto in una sorta di vangelo apocrifo, e con un’intuizione bellissima ha raccontato che a Cafarnao, sulla riva del mare, Gesù si mette a far distribuire dai discepoli tutto il pesce a coloro che erano presenti sulla spiaggia, regalandolo gratuitamente. Questo certamente non è lontano dallo spirito del Vangelo, anzi il nostro attore ha inscenato con canti e balli sul palco, la festa che ne è venuta per la gioia della pesca abbondante. La pesca è stata abbondante non solo per Pietro e i discepoli e neppure solo per la suocera, che forse pensava di tenerla tutta per sé, ma è stata abbondante proprio per tutti.

 

  1. Lo stupore della meraviglia: sono povero anch’io come gli altri

8Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». 9Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; 10così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone.

È interessante notare ancora una volta il gioco tra singolare e plurale. Pietro si scopre peccatore, perché non voleva tornare in mare a pescare e non aveva bisogno che Gesù gli insegnasse il mestiere, ma il Signore lo provoca all’interno della sua professione, dentro la realtà nella quale si sente esperto e a partire dal suo mestiere, dal suo progetto di vita, dal suo sogno, gli fa riconoscere la sua povertà, come si scoprono poveri anche tutti gli altri discepoli. È solo con questo stupore che inizia la vita in formato grande. Si diventa adulti, quando si riconosce la propria povertà, la propria fragilità, ciò che manca e deve ancora venire.

È uno stupore contagioso – mi si permetta la battuta – più veloce del Covid! Perché ci fa stupire che la pesca abbondante può contagiare gli altri, anzi li attrae a seguire. Vi auguro nella prossima estate dopo aver fatto molte cose per la Missione, per la Caritas, per gli Ucraìni o per i ragazzi dei nostri Grest, possiate dire che in quest’anno 2022, dopo due anni di sosta forzata e di sequestro, la nostra pesca è stata abbondante. Che pesca che fa!

 

  1. E se ti cambiasse il futuro? Tira a terra, lascia, segui

Terminiamo il racconto:

“Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». 11E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”.

Anche in questo passaggio notate l’alternanza del singolare e del plurale. “Non temere Simone, d’ora in poi tu sarai pescatore di uomini. E (essi) tirate le barche a terra lasciarono tutto e lo seguirono. Si tratta, insomma, di tirare la nostra barca a terra, di lasciare tutto e di seguirlo.

Termino con un ricordo. Era l’11 d’ottobre del 1973: qui a Orta San Giulio, un’esile donna arrivò con cinque sorelle e ne trovò una sesta, una donna (oggi novantenne) che si sarebbe unita a loro all’imbarcadero, per andare verso l’isola (San Giulio). Sono trascorsi quasi cinquant’anni e oggi le sorelle monache sono una settantina solo qui a san Giulio. Hanno già fondato una comunità a Saint-Oyen e sono subentrate ad altre tre: a Fossano, a Piacenza e a Ferrara. In tutto, oltre cento monache. È un caso unico in Italia!

Stasera abbiamo potuto ascoltare la loro preghiera: per loro, la pesca è stata abbondante. Prima dal Monte Mesma, dove sono stato dai frati minori per un saluto, mi ripetevo ancora una volta: che ne sarebbe stato dell’isola se non fossero arrivate le monache? Forse una SPA, una beauty farm?! È bello che il giorno di San Giulio, alla fine di gennaio, arrivino tutti i sindaci della zona, per ringraziare il Signore che un gruppo di donne hanno creduto all’invito di Gesù di prendere il largo, e sono diventate tante, tantissime: non esiste una realtà così numerosa in Italia! Le ringraziamo, mentre forse ci stanno ascoltando, ma in ogni caso ci sono vicine. E noi vorremo essere da meno di loro?

+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara

Chi sta con i giovani? Chi si fida di loro?

Pubblichiamo in questa pagina l’intervento di don Gianluca De Marco sui settimanali diocesani del 19 novembre, in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù.

 

“Alzati e testimonia” è l’invito che il Papa con forza e fiducia rivolge ai giovani del mondo in occasione della prossima Giornata Mondiale della Gioventù che vuole essere per loro e per tutta la comunità cristiana una festa della fede, un’esperienza di Chiesa e di fraternità, un’occasione di discernimento sulla propria vocazione e chiamata alla santità.

Il messaggio che Francesco scrive ai giovani per questa giornata merita l’attenzione di tutta la comunità cristiana, specialmente di chi sta con i giovani.

Domande provocatorie: Chi sta con i giovani? Chi li ascolta? E chi si fida di loro?

Il Papa, lo dichiara anche nel messaggio, si fida di loro andando un po’ contro corrente rispetto a chi li descrive come “gli sdraiati”, egoisti, pigri, indifferenti e in questo periodo come gli “untori sociali”, “quelli della movida”.

A conoscerli davvero, si capisce che hanno ragione, invece, alcune ultime indagini sociologiche che li raccontano alla ricerca di senso e di spiritualità, autentici, con tante domande, solidali, sensibili e attivi su temi come l’ecologia e la giustizia sociale, generosi verso i più deboli. Non possiamo dimenticare l’impegno di molti che durante il lockdown hanno dato un aiuto in azioni di carità come la consegna delle borse cibo alle persone in isolamento o agli anziani e l’impegno come educatori dei più piccoli nei Grest.

Dove si è lasciato loro spazio e si è creduto in loro, hanno veramente dato il meglio! Certo, hanno bisogno di qualcuno che faccia il tifo per loro e li accompagni. Questo richiede alla comunità civile ed ecclesiale ambienti accoglienti, ospitali, dove i giovani non si sentano di troppo o costantemente giudicati.

Il rischio è vedere crescere la sfiducia dei giovani. E questo riguarda anche la Chiesa: spesso forse la mostriamo ingessata, ingabbiata, fredda e rigida. E’ urgente, allora,  un’azione di conversione, perché sia sempre più autentica, luminosa, trasparente e gioiosa.

«Perché un giovane dovrebbe diventare cristiano e “vivere” nella Chiesa?»: è una domanda che ho sentito rivolgere qualche mese fa in DAD da una ragazza al suo professore di religione. Questo “perché” mi interroga come battezzato e come prete, facendomi pensare a Pietro sul Tabor, che vedendo Gesù trasfigurato dice: «È bello essere qui per noi!». Dobbiamo tornare a proporre questo volto di  Chiesa: la casa di chi è attratto dal bel sorriso di Cristo, un sorriso penetrante che rende liberi e ti sprona a imitare la sua bellezza,  riscoprendosi creati per la santità, per vivere da “alzati” e non al ribasso.

Il messaggio che il Papa scrive deve scuotere la coscienza di noi cristiani adulti perché i giovani per essere testimoni hanno bisogno di vedere testimoni, per essere santi hanno bisogno di santi che formino altri santi. Santi testimoni e persone con competenza adulta, di questo hanno bisogno i giovani ed è questo che chiedono direttamente e indirettamente alle nostre comunità.

Raccogliamo la sfida, camminiamo con loro come testimoni credibili e non rinunciamo al desiderio di offrire loro il Vangelo e la vita buona che esso propone, con alcune attenzioni. Da una parte siamo chiamati a comprendere che non è vero che i giovani non credono perché non fanno le “cose religiose” (le nostre cose): hanno un’esperienza di fede fortemente personalizzata,  al confine tra il credere e il non credere, in autonomia dalla Chiesa. Questa forma è critica verso una religiosità impacchettata, formale, senza amore che non attira i giovani e nemmeno gli adulti. I giovani non credono (o così dicono) perché non sanno qual è realmente la posta in gioco e occorre da parte delle nostre comunità accendere il desiderio mostrando loro il Vangelo, prima che insegnarlo.

Significa anche incontrarli sul loro terreno, imparando a conoscere i loro mondi e luoghi di vita. In secondo luogo, dobbiamo imparare come Chiesa ad esserci e ad ascoltare le domande di autenticità dei giovani, anche se a volte sono scomode o imbarazzanti. Dobbiamo partire da loro e non presentarci con un catalogo scritto di risposte pronte. Saranno loro stessi, come “vangelo” per la Chiesa, ad indicare le strade per trovare, insieme agli adulti piste e risposte plausibili per la loro vita. Servono più che mai coraggio e fiducia perché la pastorale giovanile sia non solo pastorale “per” i giovani o “con” i giovani, ma “dei” giovani considerati come soggetti-protagonisti e non solo come oggetti-destinatari della proposta cristiana. Giovani e adulti, alziamoci e testimoniamo insieme la bellezza dell’incontro con Cristo, l’unico che dà vita eterna.

Don Gianluca De Marco
Direttore dell’Ufficio diocesano
per la Pastorale Giovanile

Lo scorso sabato 20 novembre, vigilia della solennità di Cristo Re dell’Universo, si è celebrata in diocesi la XXXVI Giornata Mondiale della Gioventù, sul tema, tratto dal messaggio di Papa Francesco ai giovani di tutto il mondo, Alzati e Testimonia.
Di seguito pubblichiamo integralmente l’intervento con le parole che il vescovo Franco Giulio Brambilla ha rivolto ai ragazzi il momento di preghiera e Adorazione eucaristica che ha chiuso l’incontro, in cattedrale a Novara.

 

La catena della vita

Intervento alla celebrazione in diocesi  della XXXVI Giornata Mondiale della Gioventù

Un saluto affettuoso a tutti voi, in questa sera, nella quale viviamo per la prima volta la Giornata della Gioventù nella festa di Cristo Re, al termine dell’anno liturgico. Vogliamo celebrarla in un modo nuovo, rispetto alla Veglia delle Palme, che peraltro continueremo a fare, anche in preparazione alla XXXVIII Giornata mondiale della Gioventù che si terrà a Lisbona nel 2023.
Il testo che ci fa da guida contiene per la terza volta nel Libro degli Atti degli Apostoli il racconto della conversione di san Paolo sulla via di Damasco (At 26, 12-18). Paolo da quel momento passa da persecutore a testimone. Sono belle le parole che Gesù rivolge a Paolo, quando caduto a terra domanda:

“«Chi sei, o Signore?»”. (At 26, 15a)

È molto significativo che nella domanda di Paolo sia già contenuta la risposta, lo chiama infatti “Signore”.

“E il Signore rispose: «Io sono Gesù, che tu perséguiti. Ma ora àlzati e sta’ in piedi.»”. (At 26, 15b-16)

Dopo due anni in cui abbiamo assistito in tutti i modi possibili alle varie fasi di evoluzione della pandemia, stasera siamo invitati anche noi a stare in piedi!
A tal proposito raccomando a tutti di scrivere sul proprio diario o sulla propria pagina social, il racconto di questi due anni, magari dedicandovi un po’ di tempo durante la vacanza, domandandoci semplicemente: come abbiamo vissuto questo tempo?
Vi confido che in questa settimana trascorsa nell’Unità Pastorale Missionaria di Omegna sono stato fortunato perché ho trovato una cosa inimmaginabile, da Guinness dei primati! Mentre facevo la visita pastorale a Mergozzo, mi hanno portato a vedere una cosa che mi ha fatto sbarrare gli occhi! Eccola:

Si vede lo scultore Giuseppe Lusetti con la sua opera, che da un blocco di granito ha ricavato una catena scolpendo quasi trecento anelli in modo tale che tutti fossero intrecciati l’uno nell’altro – per ottenere quest’effetto di concatenazione è stato necessario che un anello fosse scolpito con un’angolazione di novanta gradi rispetto al precedente e così di seguito! – e con molta pazienza, con infinita pazienza, egli ha scolpito quello che ha visto dentro nel marmo. A quel punto gli ho chiesto come ha potuto realizzare quest’opera e mi ha risposto in modo disarmante che lo scultore vede l’opera nascosta nella pietra. E ha aggiunto: “Basta togliere il superfluo!”. Nel blocco di granito o di marmo, oppure nel pezzo di legno, per l’artista è già contenuta la figura. Così nello sviluppo della vita c’è già dentro la vostra figura adulta, quella che intendete far crescere. Si tratta con un primo gesto di togliere il superfluo!!!
Altre immagini ci mostrano la catena: prima distesa nel prato a fianco della chiesa di Mergozzo:

Poi appesa in modo lineare, come in un quadro moderno:

Ancora, la vediamo allungata su una stradina che si arrampica. Osservate quante mani sono necessarie per sostenerla:

Ed ecco la sorpresa: questo è il pezzo di marmo da cui è tratta la scultura:

 

Con l’immaginazione possiamo riandare a come l’artista ha iniziato la sua opera, dall’alto, scendendo e scolpendo i trecento anelli già intrecciati tra loro… Probabilmente non esiste una cosa simile in tutto il mondo!

Desidero allora fermarmi a riflettere su tre aspetti con cui possiamo far emergere l’opera d’arte dal granito e l’opera d’arte che siamo noi, compiendo tre gesti o tre azioni, ripetute con pazienza e creatività.
La prima consiste nel togliere il superfluo. Se chiedete ad ogni scultore come fa a intravedere la figura finita, a cominciare da Michelangelo in giù, vi direbbe che è sufficiente togliere ciò che superfluo per far emergere l’immagine.
Il secondo gesto è curare l’essenziale. Perché ogni anello abbia gioco con l’altro a cui è collegato occorre che sia perfetto affinché non si rompa e la pietra non si crepi. Fare quasi trecento anelli senza romperne nessuno ha richiesto tantissima cura e pazienza!
E, infine, con il terzo gesto, bisogna disegnare il futuro. È molto bella questa catena che può assumere diverse posizioni, disegnare molte figure e rappresentare molte immagini di futuro! L’abbiamo vista avvolta come una specie di chiocciola o spirale, poi distesa come una sorta di biscia e poi addirittura appesa ad una parete e infine lungo una strada per indicare il cammino.
La stessa catena, gli stessi anelli, possono disegnare percorsi molto diversi. Riflettiamo brevemente su questi tre aspetti.

1 – Togliere il superfluo

Proviamo a guardare nella nostra vita, facciamoci aiutare anche da qualcuno che ci sta accanto, che magari sia il nostro punto di riferimento, che è la persona con cui dialoghiamo, che è quell’amico o amica a cui chiediamo che cosa devo togliere, tra le molte cose che possiedo? Provate ad osservare stasera quando rientrerete a casa la vostra camera e vedrete quante cose ci sono! In genere le nostre camere – lo dico sovente ai ragazzi delle elementari e delle medie – sono come la foresta amazzonica! Per farsi strada, per trovare il letto bisogna abbattere qualche barriera… per trovare ciò che è essenziale si tratta di togliere ciò che è superfluo. Ho già raccontato in un’altra occasione la storia della torta: la mia generazione ha dovuto aggiungere qualcosa per fare la torta della vita, la vostra deve togliere ciò che è superfluo.
Pensiamo a quanto scarto è rimasto per realizzare la catena di granito, per farla brillare nella sua bellezza, ma anche nella sua plasticità, nella sua possibilità di essere utilizzata per mille rappresentazioni. La prima domanda importante è proprio questa: quale figura c’è dentro di noi? Riusciamo a scorgere la figura che saremo fra due o tre anni? A costruirla, a lavorarci un po’ sopra, a farla crescere, ad abbandonare qualcosa per ottenere ciò che è più grande? Ecco: questo è il primo momento che risponde alla bella domanda del Signore Gesù nei confronti di Paolo: “Alzati e sta’ in piedi!”.

2- Curare l’essenziale

Come ci ha mostrato la foto, anche noi dobbiamo immaginare di partire dall’alto con lo scalpello e pian piano tirare fuori prima un anello orizzontale poi il successivo verticale già intrecciato, cercando di non fare saltare l’uno mentre si lavora con l’altro. Mi sembra molto bella questa immagine, perché a volte si ha un po’ l’impressione di girare su se stessi, come se la vita non procedesse, e si fanno le stesse cose o gli stessi errori, anche per sostenere un esame o un’interrogazione e si impegna molto tempo.
Pensiamo a quanta cura dell’essenziale ha avuto l’artista per far emergere piano piano la sua catena con i suoi quasi trecento anelli. Puoi impiegare anche dieci anni di vita per curare per ogni anello ciò che è essenziale, che sia che sia ad un tempo uguale e ad un tempo un anello in più che ci fa crescere. Solo così si diventa grandi. Se riuscite a scorgere tra gli adulti una persona di cui potete dire: “è una bella persona!” perché è affidabile, perché facilita il rapporto, la relazione, l’attenzione, la vicinanza, l’ascolto, la prossimità, questa è una persona che ha curato anello per anello la sua vita per salire in alto. Curate l’essenziale!
Speriamo, nel breve volgere di mesi passato un po’ il freddo dell’inverno, di poter abbandonare anche le mascherine, ma la cosa più importante che non dovremmo mai abbandonare sarà la nostra voglia di crescere, eliminando il superfluo e curando l’essenziale.

3 – Disegnare il futuro

Da ultimo si tratta di prendere in mano la catena, valutando la dimensione dell’anello, per sollevarla in alto. Abbiamo bisogno degli altri: guardiamo la catena distesa sul sentiero con l’aiuto di innumerevoli mani, perché venga svolta e possa essere portata.
Nella sua flessibilità la catena può essere usata per creare le più svariate immagini: si può disporre la propria catena, la catena della vita, in lunghezza come una figura sinuosa simile ad un serpente su un prato, oppure si può disporla a chiocciola, o ancora si può affiggere ad un muro, perché appaia nella sua regolarità. È interessante perché la catena sembra la cosa più ripetitiva, come accade per le regole di un gioco, da quelli più difficili a quelli più creativi. È interessante che il gioco che deve rispettare molte regole consente anche tanta creatività.
Insomma la terza e ultima cosa che ci viene chiesta è proprio di disegnare il nostro futuro. Allora, dopo aver scritto due paginette su come abbiamo vissuto questi due anni, chiediamoci cosa abbiamo imparato togliendo il superfluo, curando l’essenziale, al fine di disegnare il nostro futuro! Come vogliamo distendere la nostra catena sul prato; come vogliamo condividerla con gli altri, per crescere e andare avanti in questo terzo decennio del secolo?
Tra poco, mentre pregheremo in silenzio davanti al Santissimo Sacramento, accanto ai nostri amici, alle nostre amiche, rivedremo passare di nuovo davanti a noi le immagini della catena scolpita da questo arditissimo artista. Possiamo dire che nella nostra diocesi questa sera abbiamo seicento giovani da Guinness dei primati!

+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara

La libertà nei passaggi della vita. Le parole del vescovo ai giovani della Route

Lo scorso 5 giugno si è tenuta l’edizione 2021 della Route dei Giovani, il primo appuntamento diocesano dedicato a ragazzi e ragazze in presenza dopo lo stop dovuto alla pandemia. Tre gli itinerari (per il nord, centro e sud della diocesi), attorno ad un unico cammino.


La libertà nei passaggi della vita
Route dei giovani 2021
05-06-2021
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«È la prima volta che ci incontriamo. Lo scorso aprile abbiamo vissuto la veglia delle Palme, per quanto molto ben fatta, solo in video e la Route dell’anno passato non si è potuta svolgere. È dunque la prima volta che ci vediamo. Ho letto sui vostri volti, negli altri luoghi dove si è svolta oggi la Route, stamattina a Galliate, poi a Cavandone e, infine, qui ora a Boca, tanta voglia di ripartire con il vostro entusiasmo», ha detto il vescovo Franco Giulio nell’omelia al Santuario di Boca ai partecipanti, indicando una strada per animare e sostenere questo tempo di ripresa.

Ecco il testo integrale della sua omelia. A questo link, il video messaggio che mons. Brambilla ha inviato ai partecipanti durante la giornata.

 

La libertà nei passaggi della vita

Route dei giovani 2021

 

La ripartenza

Carissimi giovani, celebriamo qui a Boca il traguardo della nostra Route che, però, come per ogni giro che si raccomandi, è solo la prima tappa. Questa è una tappa particolarmente importante, perché è la prima di un giro più grande che forse, così almeno speriamo, ci introduce in un nuovo periodo. Voi, che siete nati dopo il 2000, siete i giovani del terzo millennio, di questo secolo che probabilmente non è ancora veramente partito!

Vi è noto come agli inizi del secolo, nel 2001, abbiamo vissuto la tragedia delle Torri Gemelle, e lì ci siamo resi conto che il mondo non era più solo il mondo occidentale. Ci siamo trovati dinanzi a una competizione col mondo orientale, con uno scontro tra varie culture e addirittura religioni diverse, che per alcuni è divenuto addirittura uno scontro di civiltà. In seguito c’è stata la grave crisi economica del 2008 che si è protratta almeno fino al 2012, l’anno nel quale sono arrivato a Novara quando c’era ancora lo strascico della crisi. Qualcuno di noi potrebbe aver avvertito anche in casa propria gli effetti di quella depressione economica. Questi fatti degli inizi del secolo ventunesimo, per quanto gravi, sono stati tuttavia per noi eventi esterni e di cui abbiamo fatto esperienza solo attraverso il filtro della televisione e della comunicazione. Forse la seconda crisi, che ha riguardato il versante economico, ci ha toccati più da vicino, ma voi eravate ancora ragazzi o all’inizio dell’adolescenza.

La terza crisi, questa segnata dal Covid, ci ha chiusi tutti in casa. Il paradosso è che la stiamo vivendo con un nemico assolutamente invisibile! E ci ha rinchiusi per un anno e tre mesi, perché il primo lockdown ha avuto inizio il 7 marzo dello scorso anno.

È la prima volta che ci incontriamo. Lo scorso aprile abbiamo vissuto la veglia delle Palme, per quanto molto ben fatta, solo in video e la Route dell’anno passato non si è potuta svolgere. È dunque la prima volta che ci vediamo. Ho letto sui vostri volti, negli altri luoghi dove si è svolta oggi la Route, stamattina a Galliate, poi a Cavandone e, infine, qui ora a Boca, tanta voglia di ripartire con il vostro entusiasmo.

Ora la mia domanda è: come dobbiamo riempire questa ripartenza? Ci vengono in aiuto le due scene che abbiamo ascoltato dalla Liturgia della Parola di oggi.

1. Ritessere legami

La prima scena è presa dal testo dell’Antico Testamento – Esodo 24,3-8 – ed è il testo della alleanza. Si narra di una condizione simile alla nostra, di un popolo già uscito dall’Egitto, già libero e non più schiavo, però in cammino nel deserto e che deve inventarsi come popolo. Mosè sancisce un’alleanza, un patto, un legame e una legge comune, i comandamenti, perché, senza un’intesa sui gesti fondamentali da compiere, non c’è popolo. Poi Mosè lo fa attraverso un rito dove le dodici stele delle dodici tribù sono asperse con il sangue insieme all’altare centrale che rappresenta la presenza di Dio. Questo rito di alleanza ci consegna un messaggio bello che vorrei regalarvi: per ripartire bene deve circolare la stessa vita. Per gli ebrei il sangue è la sede della vita, e anche tra noi deve circolare la stessa vita, non solo la vita fisica, ma anche la vita con la “V” maiuscola. La vita come desiderio di fare e di crescere, desiderio di sfidare, di scegliere, di andare avanti. Per attuare questo, dobbiamo rinnovare il nostro patto, i nostri legami.

Giovedì scorso in Duomo, in occasione della celebrazione la festa del Corpus Domini, facevo notare quali erano le cose che ci sono mancate maggiormente in questi mesi: gli abbracci, le carezze, la stretta di mano, che sono tutti segni del legame, dell’affetto, della prossimità. La nostra prosse­mica, cioè il modo con cui diventiamo prossimi in quest’anno è stato inibito, è stato come sterilizzato e ora dobbiamo recuperarlo. Lo riprenderemo nei gesti, ma sarà importante ricuperarlo anche nelle nostre relazioni. Può essere che in questi tempi avremo smarrito qualcuno per strada, perché magari non ha più inviato messaggi, è uscito dal gruppo… Dobbiamo allora ricuperare i legami che ci fanno andare avanti, perché nel deserto non si cammina da soli.

Il deserto è struggente e meraviglioso, ma anche come dice il libro del Deuteronomio grande e spaventoso (Dt 8,15)! Forse non vi è mai capitato di attraversare un vero deserto, dove ci sono interminabili chilometri di sabbia. Se uno pensa di fissare al mattino una duna come riferimento per iniziare il suo cammino e poter tornare sulla stessa via, alla sera la duna di sabbia ha già cambiato forma e non la si riconosce più. Per questo il salmo dice “Signore tu sei mia roccia”[1], perché mentre per noi la roccia indica un “fondamento” sicuro, per gli ebrei era anche il “punto di riferimento” certo, perché la roccia non muta la sua forma, rimane salda pur in mezzo ad un panorama di dune sabbiose. Il messaggio che voglio consegnarvi oggi è un invito forte ad essere persone che ripartono! Tengo molto a lanciare questo messaggio, perché possiamo ritessere i nostri legami, la nostra prossimità, la nostra vicinanza.

2. Prepararsi a diventare adulti

La seconda scena ci dice forse qualcosa di più concreto. Gesù stesso è la figura storica che ci cammina accanto. L’ho detto anche attraverso il breve messaggio che ho inviato e che mi ha preceduto. Gesù manda avanti i suoi discepoli a preparare il luogo dove celebrare la Pasqua. Anche noi dobbiamo lasciarci mandare avanti, per preparare il luogo dove celebrare questo passaggio. Molti di voi, soprattutto chi ha vissuto momenti di passaggio, dalla terza media alla prima superiore o dalla quinta superiore al primo anno di università, o anche chi stava cercando un lavoro ha vissuto questo tempo come un tempo rubato. Di ciò sono molto preoccupato, come ho confidato anche ai preti giovani qui presenti. Questi passaggi, questi due anni rubati che purtroppo non torneranno più, questi snodi importanti della vita, nei quali si viene iniziati a una fase nuova dell’esistenza, non si potranno più vivere. Ai sacerdoti e anche agli educatori dico che a settembre dovremo fare qualcosa per dar voce a questi adolescenti, giovani e giovani adulti che hanno vissuto questi passaggi negati. Aiutiamoli ad elaborare il loro lutto, aiutiamoli a rileggere come hanno vissuto questo tempo da soli, nella stagione in cui di solito si prendono decisioni importanti.

Preparare la Pasqua ha anche un altro significato per voi. Prevedo che nei prossimi mesi si vivrà un po’ di euforia per la libertà ritrovata e quindi dovremo attendere il mese di settembre per vedere cosa rimane. Se dovessi tradurre per voi le domande classiche che solitamente si fanno ai personaggi famosi, perché dimostrino la loro concretezza e la loro cultura (quanto costa un litro di latte? tre libri che vorreste portare su un’isola solitaria), a voi chiederei: “Quali sono le due/tre cose che portereste nel 2022 e poi anche nel 2023 e 2024, quando forse ritorneremo a una vita apprezzabilmente normale?”. In questi ultimi anni abbiamo vissuto tante possibilità, adesso possiamo immaginare di scegliere qualcosa, con cui potremo diventare un po’ più grandi.

Per diventare adulti, bisogna scegliere! Un adolescente di fronte alla domanda “cosa scegli?”, risponde che sceglie “tutto”, mentre l’adolescente diventa adulto, quando è capace di concentrare quel “tutto” dentro un’unica scelta, in una scelta singolare. Pare che Einstein fosse stato bocciato all’esame di matematica! Ma poi ha saputo concentrare tutta la sua potenza intellettuale, tra le infinite possibilità, nello studio della fisica e ha scoperto la legge della relatività. Così ognuno di noi ha una legge della vita da scoprire, ma per fare questo deve concentrare nella sua scelta di vita, una decisione che ci fa unici e singolari, come in una sorta di fusione atomica. Solo in quel momento sarà diventato adulto!

Se, dunque, in questi due anni abbiamo sperimentato che potevamo vivere senza questo o quello, chiediamoci allora quali sono le due/tre cose che porteremo con noi nel futuro e che ci aiuteranno a diventare adulti. Nella vita e nella fede. Allora l’invito “ripartiamo” porta con sé un contenuto forte. I vostri volti mi dicono che ce la possiamo fare. Anche se piove a dirotto, ci proviamo?

 

+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara

[1] (Cfr. Sal 18,3.32.47; Sal 19,15; Sal 28,1; Sal 31,3; Sal 42,10; Sal 62,3.7; Sal 71,3; Sal 73,26; Sal 78,35; Sal 89,27; Sal 92,16; Sal 94,22; Sal 95,1)